La Ragione degli Affetti (su Transfert e Controtransfert)

Dr. Giubbolini Dr. Carlesi • 13 ottobre 2018

Controtransfert e amore in psicoterapia

Il Saggio "La Ragione degli Affetti" è stato pubblicato su: Quaderni Italiani di Psichiatria, Direttore Prof. Vittorino Andreoli, n. 2 Aprile 1997


Sommario

1.STORIE DI AFFETTI E PSICOTERAPIA
La Fuga
La Fuga di Breuer...
...E La Fuga di Freud.
L’Assenza
Danni di Controtransfert


2. TRASFORMAZIONI
Cura, affetto, conoscenza
Il vuoto
Seduzioni
L’amore alienato
L’amore come trasformazione del bisogno
Amore, morte e trasformazione
Il dolore: occasione e limite dell’incontro
Il tempo sospeso
Abilità e virtù della felicità


3. L’AMORE DI CONTROTRANSFERT
Linguaggio della poesia e linguaggio della terapia
Transfert, controtransfert e amore
La ragione degli affetti


BIBLIOGRAFIA


La ragione degli affetti

1.STORIE DI AFFETTI E PSICOTERAPIA


La Fuga
La Fuga di Breuer...
...E La Fuga di Freud.
L’Assenza
Danni di Controtransfert
La fuga di Breuer...


1. STORIE DI AFFETTI E PSICOTERAPIA


Ci sono di mezzo dei desideri, e dei dolori, che sai benissimo cosa sono,
ma un nome vero, per dirli, non ce l’hai.
E comunque non è amore.
(Questa è una cosa antica.
Quando non hai un nome per dire le cose,
allora usi delle storie).
A. Baricco


Credevo non mi amasse
perché è vietato
forse invece non mi ama
perché non è innamorato
V. Lamarque


LA FUGA


La fuga di Breuer...


Com’è pressoché universalmente noto, la storia della psicoanalisi inizia con il caso clinico di Anna O., descritto da Josef Breuer nel 1895.
Breuer era nato a Vienna nel 1842; figlio di un insegnante di religione aveva intrapreso gli studi medici con grande passione e grande talento. Dopo aver iniziato una brillante carriera scientifica aveva rinunciato al titolo di libero docente e di professore straordinario per potersi totalmente dedicare all’attività clinica ed alla cura dei propri pazienti. Descritto dai suoi contemporanei come uomo di indole modesta, e pur tuttavia clinico ammirevole, riuniva in sé grande intuito scientifico e profondo senso umanitario; uomo eccezionalmente colto e sensibile, era divenuto uno dei medici più stimati e ricercati dell’intera Vienna.
Freud, che aveva studiato medicina a Vienna dal 1873 al 1881, nel 1877 frequentava il laboratorio di istologia e fisiologia di Ernst Brücke, e qui conobbe Breuer; questi suscitò la curiosità del giovane Freud con la storia della malattia di una giovane donna isterica che lo stesso Breuer aveva avuto in cura, e che sarebbe poi divenuta famosa con lo pseudonimo di Anna O.
Nel 1893 Freud e Breuer pubblicarono assieme un lavoro sull’isteria -noto come “Comunicazione preliminare”- dal titolo: “Meccanismo psichico dei fenomeni isterici”, che viene oggi considerato il primo mattone dell’edificio psicoanalitico. Nel 1985 completarono gli “Studi sull’isteria”: nell’ambito di questo, alla ristampa della “Comunicazione preliminare”, faceva seguito il caso clinico “Signorina Anna O.”, a firma del solo Breuer.
Il dottor Breuer aveva conosciuto Anna nel 1880; a quell’epoca, il medico aveva 38 anni, la sua paziente 21. Il rapporto di terapia tra i due si interruppe nel 1882, dopo circa due anni di cure. Breuer le dedicherà, per tutto questo periodo, molte ore di ogni giorno. Anna verrà successivamente descritta come una giovane donna di grande intelligenza e sensibilità nonché straordinariamente attraente.
Riguardo la storia di Anna si hanno due differenti versioni: la prima è appunto quella di Breuer (1895), la seconda è quella di Ernst Jones (1953), biografo ufficiale di Freud e del movimento psicoanalitico. Le due versioni si differenziano sensibilmente, in specie per ciò che riguarda la conclusione del trattamento: “... L’ultimo giorno... (Anna) riprodusse l’allucinazione d’angoscia... che era stata la radice di tutta la malattia. Immediatamente dopo... fu libera da tutti gli innumerevoli disturbi che prima aveva presentato. ...Le ci volle tuttavia ancora parecchio tempo prima di ritrovare del tutto il suo equilibrio psichico. Da allora gode perfetta saute.” (Breuer, 1895). Secondo la versione fornita da Jones, al contrario, al tempo della presunta guarigione dalla malattia Anna era tutt’altro che guarita; la mattina del 7 giugno 1882 Breuer aveva sì concluso il trattamento di Anna: tuttavia la sera stessa venne di nuovo chiamato al capezzale della sua malata la quale si trovava in preda ai contorcimenti di doglie psicogene -una gravidanza isterica conseguenza immaginaria della propria relazione con Breuer- che costrinsero lo spaventatissimo medico ad ipnotizzarla per un’ultima volta, fuggendo quindi precipitosamente dall’abitazione di Anna.
Ellenberger (1970) ha accertato che Anna trascorse il periodo successivo (da luglio ad ottobre di quello stesso 1882) nella casa di cura Bellevue di Kreutzlingen; nella relazione -redatta dallo stesso Breuer- acclusa alla cartella clinica del Bellevue, non vi è alcun accenno alla gravidanza isterica di Anna. Dalla medesima cartella clinica risulta evidente che, al momento della dimissione, Anna era chiaramente ancora malata, sia fisicamente che psichicamente, nonché morfinomane.
È dunque davvero paradossale il fatto che la presunta guarigione di Anna abbia potuto rappresentare il prototipo della guarigione ottenibile con quella che sarebbe poi divenuta la terapia psicoanalitica ed il punto di partenza della psicoanalisi.
Invero, la psicoanalisi -con la storia di Anna O.- inizia con una mancata guarigione e con una fuga: la mancata guarigione di Anna e la fuga di Breuer, fuga dalla quale il povero dottor Breuer non farà più ritorno: “...mi sono ripromesso in quella circostanza di non espormi mai più ad un simile giudizio di Dio...” (Haynal, 1989, Cit. in Krutzenbichler-Essers, 1993).
“Anna O.:
però, se io fantastico, tu, dimmi, cosa tieni nei sogni nascosto, cosa nasce, in te, che non vuoi far passare alla storia di una scienza nuova che stiamo inventandoci insieme?” [i]
Non è nostra intenzione dilungarci ulteriormente sulla storia di Anna; tuttavia, è opportuno sottolineare brevemente taluni aspetti, per altro di per sé piuttosto evidenti, di questa vicenda.
La prima considerazione riguarda il fatto che la ‘cura con le parole’ -la psicoterapia- nasce e si sviluppa come conseguenza di un affetto e di una dedizione straordinari, quelli di Breuer per Anna; sono appunto questo affetto e questa dedizione a determinare, inizialmente e per un lungo periodo, il miglioramento di Anna. E che è in occasione della separazione da questi che Anna ripropone il sintomo isterico -questa volta sotto forma di gravidanza- nel tentativo inconsapevole di non sciogliere l’intenso legame affettivo che lega lei e Breuer.
Una seconda riflessione considera il fatto che lo spavento e la fuga di Breuer costano ad Anna un nuovo, prolungato, periodo di malattia: ovvero che esiste un nesso tra la reazione -se si vuole più che comprensibile- di Breuer e la mancata guarigione di Anna.
“Anna O.:
Allucinavo di essere incinta di te. Tu ti spaventasti di un sogno. Io ci sarei impazzita. Non per la mia allucinazione; per la tua paura, che me la faceva apparir ‘vera’”.
In terzo luogo si deve notare che Breuer fugge sì, apparentemente, da quell’amore ammalato di Anna, ma fugge anche -e forse soprattutto- dal proprio amore per lei.
“Anna O.:
Chiamalo sogno, chiamalo come vuoi. Ma è un’immagine viva che non ha riposo. In fondo è un sogno anche un pò ‘autorizzato’. Perché l’amore tuo per me non è follia, non fu allucinazione che tu mi amassi solo perché non l’hai detto.”
Infine, vorremmo sottolineare come all’evidente occultamento tentato da Breuer si sia aggiunto, negli anni successivi, un analogo occultamento -sotto forma questa volta di silenzio- operato da Freud e dall’intero movimento psicoanalitico: Freud scriverà le “Osservazioni sull’amore di transfert” solo nel 1914, spinto da una improrogabile necessità. In questo scritto, a distanza di oltre trent’anni dalla storia di Anna, dopo vent’anni dalla pubblicazione degli “Studi sull’isteria”, si continuerà a sostenere che l’ “untoward event” (il contrattempo) è nella gravidanza isterica e nella follia amorosa del transfert; “...proprio il verificarsi del transfert (ha) rallentato... lo sviluppo, nel suo primo decennio, della terapia psicoanalitica” (Freud, 1914). Al contrario -forse- sarebbe stato doveroso sostenere come nella fuga dal controtransfert[ii] -e nel tragico naufragio della relazione amorosa tra i due protagonisti- fossero da ricercare le motivazioni più vere del fallimento terapeutico.


*


Tuttavia, il concetto di ‘controtransfert’ subisce una drastica censura: nel 1909 Freud consente che il suo scritto sulla controtraslazione circoli solo tra i discepoli, in segreto, ma vieta esplicitamente che venga dato alle stampe (Cfr. Cremerius, 1988). Per questo stesso motivo menziona il controtransfert nei suoi scritti solo tre volte e, a partire dal 1915, non ne fa più cenno.
Tale censura durerà decenni: solo nel 1949 Paula Heimann, nonostante il parere contrario e gli ammonimenti dei colleghi, presenterà al congresso psicoanalitico di Zurigo una relazione sul controtransfert. In questa la Heimann dice: “... l’inconscio dell’analista comprende l’inconscio del paziente. Questo rapporto... viene in superficie in forma di sentimenti che l’analista scopre... nel suo controtransfert” (Heimann, 1950).
La Heimann, con il suo lavoro, certamente favorisce una comprensione nuova del controtransfert: tuttavia quello che solo Harold Searles, nel 1959, giungerà a definire ‘amore di controtransfert’ continua ad essere un tabù -precluso da qualunque possibile elaborazione- ancora più intenso di quello che riguarda l’amore di transfert (Searles, 1959, cit. in Krutzenbichler-Essers).


NOTE


[i]Le citazioni di ‘Anna O...’ sono tratte dal libro di Claudio Badii: Lo psichiatra innamorato (1989); in una recensione al libro si legge: “...Il movimento che inizia di fronte ad una seduzione accettata ... diviene storia d’amore, storia di un tradimento inevitabile nel momento che musiche, sguardi, parole, immagini conducono all’ipotesi d’un rimosso non malato, di una possibilità dunque di una trasformazione definitiva per la via opposta a quella indicata da Freud: “lasciar emergere l’inconscio laddove era l’io”... La vicenda Breuer-Anna O., da cui la psicoanalisi pare trarre la sua fama, che appunto alla seduzione si arrestò per cui quella fama fu sempre una usurpazione della verità che quella cura era fallita, viene narrata come una storia d’amore possibile, luogo da cui ripartire...”
[ii]Freud considerò il ‘controtransfert’ effetto dell’influsso del paziente sui sentimenti inconsci dell’analista. Tuttora, dal punto di vista concettuale, alcuni Autori intendono per ‘controtransfert’ le reazioni inconsce dell’analista al transfert. Altri, invece, comprendono nel controtransfert tutti gli aspetti di personalità dell’analista suscettibili di intervenire nella cura. Per quanto ci riguarda, parleremo del ‘controtransfert’ in quest’ultima accezione (che non esclude ma comprende la prima).



...E la fuga di Freud.


Nel 1886 Freud apre a Vienna il proprio studio medico ed inizia ad occuparsi di pazienti isteriche che a lui venivano inviate da colleghi più anziani.
Seguendo le orme di Breuer si dedica con passione alla terapia delle nevrosi. Come Breuer, seppure con un impatto meno violento, deve rimanere scosso e perplesso di fronte a talune manifestazioni delle sue pazienti:
“... una delle mie pazienti... un giorno in cui la liberai dalla sua sofferenza... svegliandosi dal sonno ipnotico mi gettò le braccia al collo.” (Freud, 1924). Di fronte a tali manifestazioni Freud interrompe il trattamento ipnotico; come Breuer di fronte ad Anna anche Freud sembra fuggire dinanzi ai sentimenti delle sue pazienti. E, contemporaneamente, sembra intuire che tali sentimenti -e desideri- sono, allo stesso tempo, veri e falsi: da un lato, sono riferiti al terapeuta ‘in carne ed ossa’, dall’altro, tuttavia, rappresentano una sorta di ‘equivoco’ in virtù del quale il paziente anela ad una relazione affettiva che è, in realtà, riferibile non al terapeuta stesso ma ad un’altra persona significativa che appartiene al passato del paziente. È questo, in sintesi, il significato del ‘transfert’ ed è piuttosto evidente, in sintonia con l’intera costruzione teorica di Freud, l’idea del transfert -ma se si vuole anche dell’intera vita psichica, e dell’essere umano- in termini endopsichici, astorici, al di fuori di un reale rapporto interpersonale. Inoltre, -più nello specifico- si riafferma la centralità del transfert come prodotto del paziente, e si ripropone l’idea del medico-vittima che passivamente subisce un assalto amoroso del quale non è in alcun modo responsabile e che, oltretutto, non gli è neppure propriamente riferito.
È un velo teorico quello che Freud stende sulla reciproca seduzione amorosa tra il terapeuta e la sua paziente.


*


Ma il controtransfert si farà sentire: nell’ottobre dell’anno 1900 Freud prende in cura una giovane paziente, Dora; questa ha 18 anni, Freud ne ha 45. La terapia di Dora dura solo undici settimane, dopodiché sarà la paziente stessa ad interrompere il trattamento analitico.
Il rapporto terapeutico tra Freud e Dora nient’altro è se non un lungo ed appassionato dialogo sull’amore e sulla seduzione, e ciò “... nel senso della realtà psichica ... è una seduzione; (poiché) parlare di seduzione è seduzione.” (Neyraut, 1974). È stato sottolineato come la relazione ‘amorosa’ tra Freud e Dora si sia dipanata all’insegna della reciprocità; è stato anche osservato come la peculiare situazione amorosa sviluppatasi nel contesto della relazione terapeutica abbia consentito a Freud di immergersi -pressoché totalmente- in ogni più recondito aspetto della personalità di Dora: in altre parole, di come ciò abbia consentito a Freud una comprensione difficilmente eguagliabile. Ogni aspetto della vicenda di Dora ha attratto il suo interesse e la sua attenzione; tutto ha assunto un significato nuovo ed unico. Da ciò è derivato tuttavia un furore interpretativo la cui forma ed il cui contenuto sono stati probabilmente responsabili dell’interruzione della terapia. Una ‘passione interpretativa’ conseguenza diretta -nei noti termini di sublimazione- della ‘passione amorosa’ di Freud; passione che evidentemente non si esaurisce con l’interruzione della terapia, se è vero che Freud scrive il caso di Dora (Frammento di un’analisi d’isteria) nel gennaio del 1901, nei giorni cioé immediatamente successivi alla rottura del rapporto di terapia.
È inoltre da notare che è proprio questo interesse da parte di Freud -che anche noi, qui, vogliamo iniziare a chiamare ‘amore di controtransfert’- a consentire la scoperta del transfert, e dell’importanza di questo ai fini della terapia.
Il fenomeno -ed il concetto- di transfert erano stati definiti una prima volta negli ‘Studi sull’isteria’ (1892-95); ma è proprio a proposito di Dora e del suo caso che il fenomeno viene ulteriormente elaborato: dopo il ‘Frammento di un’analisi d’isteria’, ovvero successivamente alla terapia di Dora, il transfert, da grave ostacolo al trattamento analitico, verrà rivalutato come il migliore alleato terapeutico. Inoltre è in questa medesima circostanza che il medico, per la prima volta, interverrà nell’ambito del lavoro di analisi come oggetto interno ad essa.
È stato osservato come la risposta di Freud all’annuncio -da parte di Dora- di voler interrompere il trattamento analitico sia stato accolto con singolare -apparente- indifferenza:
“... -Sa dottore che oggi è l’ultima volta che sono qui?
- Non posso saperlo, perché non me l’ha mai detto... Sa bene che è sempre libera di smettere...” (Freud, 1901).
La risposta di Freud cela -quanto meno- una delusione; parole singolarmente prive di ogni sentimento, poiché da queste il sentimento è totalmente bandito.
È da notare come a Dora si ripresenti una situazione analoga a quella che -in fin dei conti- l’ha condotta ad intraprendere la terapia con Freud[i]: l’amore per Dora del signor K. (l’amore per Dora di Freud); l’apparente rifiuto di Dora (lo schiaffo al signor K., l’interruzione dell’analisi con Freud); l’ostentata reazione di indifferenza sia del signor K. che di Freud.
E Dora si allontana.
È forse da sottolineare, infine, un’ultima analogia, questa volta riferibile alla vicenda di Freud e quella -precedente- di Breuer: dopo oltre un anno Dora si ripresenta a Freud, chiedendo -di nuovo- il suo aiuto. Dice Freud, tuttavia senza motivare la sua affermazione:
“... ma mi bastò guardarla in volto per capire che questa richiesta non andava presa sul serio.” (Ibidem)
Tuttavia, Dora si ripresenta a Freud per una intensa nevralgia facciale: tale sintomo ha una precisa relazione -così come nota Freud- con la precedente interruzione del trattamento analitico e con le peculiarità della relazione terapeutica. Inoltre, questa volta Dora si presenta di sua iniziativa a Freud e non -come nella precedente occasione- su sollecitazione del padre di lei: la sua richiesta di aiuto non sembra, quindi, da sottovalutare.
Ciò nonostante Freud la rifiuta. Così come Dora era in precedenza fuggita da Freud, sembra essere adesso lo stesso Freud a fuggire da Dora, in ciò ripetendo -secondo il nostro modo di vedere- l’errore a suo tempo commesso da Breuer.
Dice infine Freud, sempre a proposito di Dora, concludendo la descrizione del caso:
“... promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente.” (Ibidem)
Verrebbe da chiedersi: e Dora, avrà perdonato Freud per averle impedito -fuggendole- la guarigione?


*


Nel 1932 Freud scrive a Stefan Zweig di aver completamente dimenticato -per un lungo periodo- la gravidanza immaginaria di Anna O.; il vuoto di memoria di Freud a questo proposito è da attribuire alla difficoltà di tollerare l’idea -e la vicinanza- dell’amore di transfert. Ma notizie sempre nuove -ed allarmanti- su sentimenti amorosi generati dalle situazioni di terapia e su relazioni amorose messe in atto tra analista e paziente ‘costringono’ -se così si può dire- Freud ad una consapevolezza che sembra a lungo evitata:
“... il ritardo con cui (Freud) prese coscienza della potenzialità diffusa dell’amore di transfert dà una misura del potere e della minaccia che racchiudeva allora e che continua a racchiudere oggi.” (Spector Person, 1993). È così che Freud nel 1914 scrive le “Osservazioni sull’amore di transfert”. In questo, la fuga dal controtransfert trova il suo inquadramento teorico, risolvendosi nella auspicata condizione di ‘indifferenza’ (assenza):
“...Ritengo quindi -dice Freud in questo scritto- che non si debba nascondere l’indifferenza che si è acquisita trattenendo il controtransfert” (Freud, 1914, cit.) (corsivo nostro). È questa una delle rare occasioni nelle quali Freud menziona esplicitamente il controtransfert, affrontandolo in una maniera che oggi appare palesemente grossolana: la necessità, propugnata da Freud, di cancellare (sino appunto all’indifferenza) ogni traccia di controtransfert deriva, evidentemente, dall’ideale scientifico positivistico di obiettività totale, da sempre inseguito da Freud, il quale trova la sua espressione compiuta nel distacco personale. L’indifferenza propugnata da Freud altro non è, infatti, se non una condizione di ‘assenza affettiva’; se è vero che Laplanche (1987) attribuisce al termine ‘indifferenza’ il significato di un atteggiamento di pari disponibilità, un’attenzione distribuita in modo uniforme su tutto il materiale fornito dal paziente, è pur vero che nel contesto di un discorso sull’amore indifferenza significa, prima di ogni altra cosa, indifferenza. Ed infatti, come sarebbe possibile non fare differenze in merito a produzioni diverse?


NOTE


[i]Non ci pare possibile -né opportuno- riassumere l’intera vicenda di Dora, né -tanto meno- le peculiarità della sua analisi. Rimandiamo, per una più compiuta comprensione di ciò che andiamo dicendo, alla originaria pubblicazione di Freud (1901) ed alle considerazioni espresse ne ‘La scoperta dell’inconscio’ da Ellenberger.



L’ASSENZA


“Mi ami, mi ami Olimpia?
Solo questa parola: mi ami?”
E.T.A. Hoffmann, 1816.


Il concetto di ‘neutralità’ riguarda dunque il fatto che l’analista -quanto più riesce ad essere libero da ogni desiderio- tanto più riesce a mantenere il ruolo di osservatore obiettivo e distaccato.
L’analista neutrale -o indifferente, (ma anche assente)- diviene così, almeno idealmente, l’analista-standard: il quale cerca quindi di evitare, per la verità in modo un pò ossessivo, ogni tipo di sentimento, ogni forma di vicinanza nei confronti dei propri pazienti. E tale atteggiamento diviene il criterio che definisce ciò che è analitico e ciò che, al contrario, non lo è; conduce in estrema analisi al paradosso implicito nel fatto che, nell’incontro interumano in ambito analitico, si cerca di evitare tutto ciò che, di umano, vi possa essere.
Il concetto della ‘neutralità analitica’ indica una delle qualità che definiscono l’atteggiamento dell’analista nella cura; in particolare, l’analista dovrebbe essere neutrale nei confronti delle manifestazioni del transfert, e sappiamo che è proprio nel saggio sull’amore di transfert che Freud sostituisce il termine ‘neutralità’ con quello, più forte ed incisivo, di ‘indifferenza’. Ed è in questo senso che leggiamo la regola dell’astinenza: “... la cura deve essere condotta in stato di astinenza” (Freud, 1915).
Il problema è che, se l’analista persegue alla lettera il principio di astinenza, perde qualunque empatia, escludendo -contemporaneamente- il proprio inconscio dal lavoro d’analisi: ed è breve il passo che conduce dall’astinenza alla disumanità.
Nella sua espressione più estrema l’astinenza giunge infatti a determinare una restrizione sempre più serrata dei criteri di analizzabilità e l’esclusione di cerchie sempre più vaste di pazienti; produce altresì intensi dibattiti sull’opportunità -ed il pericolo- implicito nel dare la mano al paziente, fargli gli auguri in occasione ad esempio di delicati interventi chirurgici, o fargli le condoglianze nel caso della morte di un familiare, e così via dicendo. Lo psicoanalista diviene la “scimmia di latta dal muso di pecora” (Stone, 1973).
L’astinenza psicoanalitica contrappone all’ ‘amor malato” del paziente la ‘sana indifferenza’ dell’analista. Tuttavia, riteniamo vi sia, nell’idea dell’indifferenza analitica, un che di ‘perturbante’.
“...Anna O.:
La tua assenza, questa pesante assenza, questa insostenibile ‘leggerezza’ del tuo avermi abbandonato, mi rende di nuovo folle, di nuovo pazza... La tua folle assenza di fronte al mio amore”.


*


“Hoffmann è un maestro ineguagliato del perturbante nell’ambito della letteratura”: così scrive Freud, nel 1918, a proposito di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e del suo racconto più famoso, ‘L’Uomo della Sabbia’ scritto nel 1816.
L’‘Uomo della Sabbia’ è un racconto fantastico, nel quale si ritrovano numerose suggestive tematiche e che ha per protagonista un giovane studente di nome Nataniele. Il racconto si sviluppa attorno ad una complessa e misteriosa vicenda e termina, tragicamente, con la morte del protagonista.
Non è possibile né -crediamo- opportuno tentare di riassumere la vicenda, poiché narrazione ed interpretazione sono difficilmente scindibili: sarà sufficiente accennare al fatto che, nel racconto, il giovane Nataniele soffre di una curiosa menomazione, visiva -o affettiva secondo i diversi punti di vista-: è, la sua, una specie di cecità, a ragione della quale crede di vedere cose che non sono. Tale condizione, che si potrebbe appunto definire di cecità psichica, o meglio ancora ‘affettiva’, sembra esprimersi, anzitutto, nell’ambito del suo amore per Olimpia “...una signorina alta, molto snella e dalla figura armoniosa...” che sembra, all’inizio, neppure accorgersi di lui; Nataniele non ha mai veduto figura più bella: ma, ad un tratto,“...parve a lui che dagli occhi di Olimpia emanassero umidi raggi lunari; sempre più vivi e fiammeggianti si facevano gli sguardi... Nataniele rimase perduto nella contemplazione della celeste bellezza di Olimpia.”. È dunque un intenso e travolgente amore quello che Nataniele sviluppa per Olimpia; Olimpia è misteriosa, immobile, silenziosa, ma nel suo sguardo e nei suoi silenzi Nataniele scorge una intensità di sentimenti del tutto eccezionale. Olimpia non parla, poiché è così intenso e bello ciò che prova, che non esistono parole per poterlo esprimere: “...ma che cosa sono le parole?” -dice Nataniele- “Parole! Lo sguardo dei suoi occhi divini dice più di qualsiasi linguaggio terreno...”. E tale amore diviene sempre più forte, ed il legame tra Olimpia e Nataniele sempre più intenso: “... a Olimpia era rivolto ogni suo pensiero... Seduto accanto ad Olimpia, egli le andava parlando un linguaggio d’amore intensamente infiammato e pieno di estasi... E trasaliva allorché rifletteva a quale meravigliosa armonia e consonanza si facesse ogni giorno sempre più tra lui ed Olimpia, e tra i loro spiriti”. (Hoffmann, 1816).
Inevitabile, non può che scoppiare la tragedia -culminante nel suicidio di Nataniele- quando questi si avvede che Olimpia altro non è se non un automa, incapace pertanto di qualunque sentimento umano.
Dunque, un amore ‘cieco’ che si sviluppa per chi non è, di amare, in alcun modo capace. Un ‘amor malato’ perché di tale delirante intensità e perché rivolto a chi, di ricambiarlo, non può che essere incapace; e ciò, per la sua stessa natura, non umana.
È facile proporre, a questo punto, il nesso: scrive Freud, in “Osservazioni sull’amore di transfert”: “... l’innamoramento (del paziente nei confronti dell’analista) ...viene provocato forzatamente dalla situazione analitica, e...non può certamente essere ascritto ai pregi della sua (dell’analista) persona...” (Freud 1914, cit.). Dunque si tratta di un amore vero, che irrompe nel teatro analitico con la forza di un incendio, “...come se una recita venisse sostituita da una realtà” (Ibidem); tuttavia, si tratta al contempo di un amore che nasce e si sviluppa in virtù della configurazione della situazione analitica -e, si suppone implicito- in virtù di un bisogno che la situazione di analisi rende evidente, ed indipendentemente dalla specificità della persona dell’analista. È evidente che l’amore di Nataniele per Olimpia può essere definito analogo ad un amore ‘di transfert’; è altresì evidente che in tale ‘amor malato’ va ricercata la causa prima della tragica fine del protagonista. Tuttavia, se torniamo per un attimo a considerare di nuovo l’amore di Nataniele per Olimpia, e se accettiamo la liceità del nesso tra il suo amore e quello del transfert, non è forse possibile chiedersi e focalizzare l’attenzione, ai fini della comprensione del racconto di Hoffmann e della terribile fine del povero Nataniele, sull’inpossibilità (incapacità) di Olimpia di ricambiare tale amore? E se l’amore di Nataniele è un amore di transfert, a questo non si contrappone forse l’indifferenza del controtransfert?
Ecco dunque l’assenza: quella di Olimpia, che sembra essere ma che non è. Che sembra umana, ma che umana non è. Olimpia, figlia dunque degli dei, creatura assente ed inumana: l’indifferenza. Il perturbante.
Di rimando, dunque, l’immagine riflessa di Nataniele, che viene a trovarsi così di fronte a sé stesso, automa in mezzo ad altri automi, cieco di fronte all’indifferenza.
Al di là dell’amore di transfert (l’amore cieco di Nataniele), non si pone forse come decisiva l’assenza (neutralità, indifferenza) di un amore di controtransfert per comprendere l’inesorabile evolvere della narrazione?
È infatti l’indifferenza affettiva che lascia l’essere dell’altro nell’angustia della propria solitudine.


*


Ed il perché dell’indifferenza è da ribadire: Freud tratta la sessualità alla stregua di infrastruttura biologica, come istinto e pulsione, in tal modo rendendo equivalenti amore e perversione. La sua scienza medica definisce infatti il desiderio come istinto, il cui fine è strettamente fisiologico e biologico: eccitazione, scarica e de-tensione. “... Quel desiderio che non desidera l’altro ma sé stesso, che non diventa veicolo di trascendenza, ma oggetto della propria immanenza giocata in quel breve spazio che separa la tensione dalla soddisfazione che la estingue” (Galimberti, 1994). L’indifferenza dunque che diviene atrofia dei desideri, la psicoterapia risultando ridotta all’idea astratta di poter costituire una soggettività (quella del paziente, ma anche quella dell’analista) priva sia di amore che di odio, una soggettività che passi ai margini dell’esistenza senza neppure riuscire a concepire anche solo l’idea dell’altro. “... E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che sa già; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta -così piccolo, così magro, così vecchio- io non lo conosco.” (Camon, 1981) (corsivo nostro).
È, questa, la vera malattia dell’uomo, e non la sua guarigione: ma chi è costui?, non lo ricordavo così, non con lui ho vissuto per tutti questi anni, ma solo con me stesso, e con i miei fantasmi.
La malattia chiamata uomo: la solitudine.



DANNI DI CONTROTRANSFERT


“Quel giorno mi venne un’ossessione, che nella curva della sua spina dorsale si sarebbero trovate delle ossa che mi avrebbero dischiuso una strada segreta per giungere fino a lei.”
Hart
Il Danno


Prima di giungere alla consapevolezza dell’altro come persona, vi è un avvicinarsi più o meno apparente all’altro che, in realtà, ne nega la presenza.
Dal drammatico innamoramento di Breuer per Anna continua ad accadere infatti che gli analisti ‘infrangano’ la regola dell’astinenza.
È, per così dire, il percepire l’altro come oggetto, un guardarlo il cui significato è solo quello di ‘vedere’, un sentirlo che significa solo ‘udire’, un accarezzarlo che è solo ed esclusivamente ‘toccare’. È questo solo un apparente dialogo d’amore, poiché è Narciso che parla alla propria immagine riflessa. Non di amare si tratta, ma di far morire, poiché è condannare l’altro alla propria infinita condizione di solitudine. Nella sua forma estrema, è la ‘violenza delle azioni’: “...L’amore non come un nuovo modo d’essere, ma come la ripetizione di un antico modo d’avere” (Galimberti, cit.).
Non si tratta in questo caso di un gioco d’amore ma di un gioco più o meno intensamente permeato di morte; e ciò ben doveva aver intuito Sabina Spielrein (1912), quando scriveva della possibilità che l’io si dissolvesse nella persona amata, potendo condurre ad una più intensa affermazione di sé così come -anche- ad una rappresentazione di annientamento e di morte. La morte se l’amore non c’è; e l’amore non c’è quando il ‘desiderio’ (ma può chiamarsi desiderio?) è fine a sé stesso, quando allontana la passione dell’altro, incapace di accoglierla, sino a poter divenire -nella sua espressione più estrema- un agire sul corpo dell’altro, un’apparenza di sessualità che altro non ci sembra essere se non una raffinata forma di autoerotismo, nella quale si può solo allucinare il contatto con l’altro.
Parliamo di coloro i quali riescono a cogliere solo la realtà materiale dell’altro, riuscendo -così- a raggelarne l’esistenza: carnefici della soggettività altrui ridotta a mera oggettività corporea. Una forma ‘maligna’ -volendo parafrasare Freud- di controtransfert; un maldestro equivoco in merito al significato dell’amore: “... il processo di guarigione si compie con una recidiva d’amore[i]... ogni trattamento psicoanalitico è un tentativo di liberare quell’amore rimosso”. (Freud, 1906).
Tout-court, il malinteso relativo alla possibilità di un agito sessuale tra analista e paziente. Malinteso che, apparentemente, esiste da quando esiste la psicoanalisi.
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Il nostro modo di considerare l’amore di transfert è legato a ciò che conosciamo di un ‘affair’ sviluppatosi nei primi anni del ‘900 tra Sabina Spielrein e Jung (Cfr. Séchaud, 1995). Sabina è una giovane di 19 anni nata a Rostov sul Don. I suoi genitori l’hanno condotta a Zurigo perché sia ricoverata al Burghölzli, ospedale psichiatrico di fama. Jung è il medico che lei, lì, incontra; è un giovane psichiatra di 29 anni, molto brillante, che si interessa dell’interpretazione dei sogni, compie ricerche sperimentali sull’associazione delle parole e lavora alla psicopatologia della demenza precoce. Lui la prende in analisi e lei diverrà così il suo primo caso.
La cura fa nascere tra i due una intensa storia d’amore, di cui verrà reso partecipe Freud; la storia tra Jung e Sabina avrà conseguenze molto importanti per la psicoanalisi, in particolar modo per ciò che riguarda la concettualizzazione del controtransfert.
La cura di Sabina inizia nel 1904, al Burghölzli, e prosegue negli anni successivi. Dopo un lungo periodo di intenso malessere, sin dal 1906 le condizioni di Sabina appaiono radicalmente migliorate; in quello stesso anno Jung, pur senza nominarla, informa Freud di avere in cura una giovane studentessa russa, affetta da ‘psicosi isterica’, che tratta con il metodo di Freud. Su indicazione dello stesso Jung, Sabina inizia gli studi di medicina, che terminerà nel 1911 con una tesi di laurea sulla schizofrenia.
Dalla primavera del 1908 inizia tra Sabina e Jung una intensa storia d’amore, destinata ad interrompersi drammaticamente nel giugno dell’anno successivo. Il 30 Giugno del 1908 Jung scrive a Sabina: “... Non potete immaginare l’importanza che ha per me la speranza di poter amare qualcuno che non si voglia condannare a soffocare sotto la banalità dell’abitudine.” (Cfr. Carotenuto, 1980) E, il 12 agosto: “... Devo riconoscere che sono più attaccato a voi di quanto avessi mai potuto immaginare”. (Ibidem)
Sabina accarezza il sogno di poter avere un figlio da Jung. Egli nutre la medesima fantasia, che realizzerà però successivamente con la moglie Emma. Aveva infatti scritto Jung in una delle lettere indirizzate a Sabina: “...Quando sento nascere in me l’amore per una donna, il mio primo sentimento è il rimpianto, la pietà per quella povera donna che sogna l’eterna fedeltà ed altre cose impossibili, e che si prepara, perciò, ad un ben doloroso risveglio”. (Ibidem)
Sarà proprio Emma Jung ad informare Freud -nella primavera del 1909- della relazione esistente tra suo marito e Sabina e -probabilmente- anche ad informare la madre di Sabina. Jung sembra cominciare a temere lo scandalo e le ripercussioni di questo sulla sua vita familiare e professionale: si ritira, non proprio dignitosamente. Scrive a Freud, senza avere apparentemente esitazioni a calunniare Sabina: “... Una paziente che anni or sono ho strappato ad una gravissima nevrosi ha deluso la mia fiducia e la mia amicizia nel modo più offensivo... Mi ha provocato un terribile scandalo unicamente perché ho rinunciato al piacere di darle un figlio.”(Freud-Jung, 1906-1913) È a questa lettera che è indirizzata la celebre risposta di Freud: “ Essere calunniati e rimanere scottati dall’amore con cui operiamo, sono questi i pericoli del nostro lavoro, a causa dei quali però non abbandoneremo certo la nostra professione.” (Ibidem).
Il risveglio di Sabina sarà dunque doloroso, ben oltre ogni immaginazione: Jung proporrà alla madre di Sabina una soluzione ‘analitica’, quella di riconoscergli un onorario che gli consenta di riprendere il proprio ruolo di medico; il medico infatti conosce i propri limiti, e non può mai oltrepassarli, poiché è pagato per l’opera che presta.
Sabina, nell’apprendere il contenuto della lettera, è sbalordita: per cercare di capire, e nel tentativo di padroneggiare la passione che ancora la agita, scrive a Freud, chiedendogli un incontro. È il 30 maggio del 1909. Freud risponde alla lettera di Sabina il 3 giugno successivo, chiedendole il motivo della sua richiesta; contemporaneamente, scrive anche a Jung, al quale chiede delucidazioni sulla giovane Sabina. Jung risponderà, ancora una volta mentendo, di essere vittima di un tentativo di seduzione, calunniato da chi cerca solo vendetta.
È nella risposta di Freud a questa lettera di Jung che, per la prima volta, compare il termine ‘controtransfert’: “Si diviene maestri nel padroneggiare il controtransfert, nel quale ogni volta ci si viene a trovare, e si impara a piazzare correttamente i nostri affetti” (Ibidem).
Così Freud da un nome a ciò che accade: ciò che ha sommerso Jung, il quale si dibatte -a ben vedere- tra violenza, contraddizioni, menzogne e tradimenti, è il ‘controtransfert’.
Si potrebbe dire, da una parte, che il termine -in realtà- mistifica l’aspetto veramente ‘scandaloso’ della vicenda: ovvero il fatto che Jung abbia risposto all’amore di transfert di Sabina con ‘atti amorosi’. In questo senso si dovrebbe dunque parlare, più propriamente, di ‘amore di controtransfert’, giacché il solo termine ‘controtransfert’ giustifica l’analista che ama la propria paziente dichiarando -contemporaneamente- colpevole quella che in realtà è la vittima, ossia la paziente stessa. Nel caso di Jung infatti è per l’appunto particolarmente evidente che il concetto di ‘controtransfert’ fa sì che l’autore del ‘misfatto’ appaia esserne la vittima.
D’altra parte però -a nostro modo di vedere- la vicenda Jung-Spielrein solo in parte può essere definita e descritta dalla dizione ‘amore di controtransfert’: e ciò semplicemente in virtù del fatto che difficilmente può essere definito ‘amore’ ciò che è -anche- menzogna, contraddizione e violenza.
E la vicenda Freud-Jung-Spielrein non è altro se non un “esempio della complicità tra due uomini i quali si coalizzano contro una donna che ha seguito i propri sentimenti e, d’altra parte, un esempio della prossimità tra scienza e cinismo.” (Cremerius, cit.).


NOTE
[i] Freud utilizza, nella pubblicazione originale, il termine ‘liebesrezidiv’, il cui significato è appunto analogo al termine italiano ‘recidiva’: è abbastanza curioso e significativo il fatto che, in medicina, tale termine stia ad indicare “il riacutizzarsi di una malattia in via di guarigione, o apparentemente già guarita”. (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana).


2. TRASFORMAZIONI


Cura, affetto, conoscenza
Il vuoto
Seduzioni
L’amore alienato
L’amore come trasformazione del bisogno
Amore, morte e trasformazione
Il dolore: occasione e limite dell’incontro
Il tempo sospeso
Abilità e virtù della felicità
Cura, affetto, conoscenza


2. TRASFORMAZIONI


La filosofia ha una funzione che non consiste tanto nel rispondere alle grandi domande,
ma nel rifiutare certe risposte.
Savater
La ragione appassionata


CURA, AFFETTO, CONOSCENZA.


Per quanto concerne le relazioni tra esseri umani, anche al di là di ogni contesto terapeutico, si può forse dire che passiamo la vita a cercare di curarci reciprocamente. L’unica cura ‘possibile’ tuttavia è quella che passa attraverso gli affetti.
Freud parlava dell’analista come di colui il quale, come un chirurgo, mette al bando i propri sentimenti e si pone come obiettivo prioritario quello di intervenire in maniera ‘corretta’ -potendosi cogliere il senso della correttezza nell’idea dell’asetticità e neutralità del trattamento; è del resto curiosa la contraddizione relativa al fatto che lo stesso Freud assegnava la massima importanza agli affetti -ad esempio per ciò che riguarda la strutturazione dei sintomi- salvo poi considerare questi medesimi come qualcosa di cui l’individuo avrebbe solo potuto, o dovuto, liberarsi.
Oggi sappiamo che non vi è possibilità alcuna di trasformazione se non si passa attraverso l’elaborazione degli affetti di transfert; sappiamo che il ‘controtransfert’ è il più potente mezzo di conoscenza e trasformazione in psicoterapia. La ‘neutralità’ dell’analista può dunque concepirsi solo ed esclusivamente come capacità di non operare in maniera sintonica con i conflitti e con gli investimenti patologici del paziente.
Riteniamo altresì che l’analista non debba ritrarsi di fronte al proprio coinvolgimento affettivo ma -al contrario- disporsi sistematicamente ad investigare nei propri affetti e nelle proprie capacità affettive: queste possono -come talora accade- esprimersi come fenomeno psicopatologico ma ciò non necessariamente rappresenta la regola. “La cosiddetta neutralità dell’analista è sostituita dalla dinamica controtraslativa che diventa elemento necessario e costitutivo del trattamento” (Furlan, 1978). Gli affetti dunque sono un elemento cardine, indispensabile nel trattamento psicoterapico.


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La psicoanalisi ha il compito di porsi contemporaneamente come terapia e come processo conoscitivo: la terapia ha intenti conoscitivi, la conoscenza valenze terapeutiche. Sono tuttavia le modalità attraverso cui si ricerca tale conoscenza ad essere fondanti: il significato etimologico del termine ‘cura’ rimanda ad uno spazio che non è solo di funzioni ed apparati, ma anche di emozioni e sentimenti: e da questi non è possibile prescindere. Cura è cioé sollecitudine, interesse, partecipazione.
Il termine adatto a descrivere l’oggetto della cura non è tanto quello di ‘malattia’ quanto quello di ‘crisi’: crisi come momento di passaggio, come transizione da un equilibrio precedente -non più adeguato- ad uno nuovo e diverso, non ancora definito né conosciuto.
In siffatto contesto, una conoscenza rigidamente ‘scientifica’, legata agli ideali di oggettività e neutralità non può che essere più o meno sterile informazione. Sono invece le valenze affettive a poter introdurre -in un ambito necessariamente dialogico- quella dimensione di incertezza che, sola, può porsi come realmente trasformativa.
In questo senso, il confine tra scienza e narrazione è incerto: e l’incertezza sconfina nella possibilità che la realtà si trasformi. All’incertezza cioé si aggiunge la possibilità di un qualcosa di nuovo e totalmente diverso.
La conoscenza psicoanalitica non sarà dunque solo ed esclusivamente verità scientifica da accettare ma scoperta di nuovi significati che vanno costruendosi insieme, in un contesto di ineliminabile soggettività. “La terapia che è la matrice, che sta quindi alla base dell’incontro, deve essere posta alla riflessione, all’esame, per permettere che dalla ‘relazione di servizio’ si passi alla relazione di reciproco concepimento, da una relazione basata sul dovere, ad una relazione basata sull’eros”. (Lampignano, 1994).
Ciò che ci interessa evidenziare è dunque che le componenti affettive non possono mai essere trascurate, nemmeno in quelle analisi che pretendono di fare della loro asetticità metodologica la condizione prioritaria di attività.
Ma allora se il fattore umano ed emotivo in tutte le sue estensioni è cosi importante per rendere irripetibile l’esperienza d’analisi, come cifra di incontro fra soggetti, non possiamo pensare che non esista un’altra esperienza nella vita che ripercorra quella sospensione così particolare del tempo e quell’oscillare inquieto di emozioni e sensazioni. Francamente non troviamo altra risposta se non nell’amore; l’amore inteso come stato di eccezione.

IL VUOTO


Possiamo definire la fase iniziale di ogni terapia come diretta derivazione dell’idea iniziale stessa di psicoterapia: una struttura sociale malata (un essere umano malato) permeata di isolamento, alienazione e morte.
È la percezione di un vuoto, di una confusione e frammentazione, di una qualche alterazione del tempo a rendere evidente quella condizione di bisogno che si pone -sempre e comunque, come nell’amore- come preliminare alla terapia: noi intendiamo questa come un tentativo ed una possibilità di conoscere l’esistenza dell’altro.
In siffatto contesto, il sintomo risulta legato ad una duplice condizione, solo in apparenza contraddittoria: l’inaccessibilità dell’io e la sua eccessiva permeabilità.
Se si potesse definire -con un solo termine- tale condizione iniziale, si potrebbe forse pensare ad un ‘vuoto’, la cui principale conseguenza è quella di determinare un’incertezza dei confini dell’io. La rigida difesa, il muro di incomunicabilità che il paziente erige tra sé ed il mondo, se da un lato appare in grado di preservare l’essere dal pericolo di una completa dissoluzione, dall’altro si pone anche -attraverso i sintomi, il ritiro narcisistico, l’alterazione del sentimento del tempo- come uno dei maggiori ostacoli al processo di trasformazione.
Intendiamo, con questa generalizzazione, tralasciare ogni possibile discorso sull’intenzionalità dei sintomi i quali alludono sempre alle specificità individuali. Il discorso sul sintomo sarebbe quanto mai complesso: ci basterà accennare brevemente al fatto che la terapia, per poter essere tale, deve da un lato trascurare i sintomi, senza farsi irretire da questi; dall’altro, al contrario, deve poter mantenere viva l’attenzione per ciò a cui i sintomi stessi rimandano. Ciò che intendiamo dire, in altre parole, è ancora che rispondendo ai sintomi con una terapia ritualizzata, con un agguerrito e ritualistico asetticismo terapeutico, rischiamo di spezzare il legame che unisce la psicopatologia ai significati individuali e di precluderci, in tal modo, ogni possibilità di conoscenza: in una terapia dogmatica, rigida, il terapeuta, irrimediabilmente scisso, tenta una ricomposizione costrittiva, in un gioco interminabile tra transfert e controtransfert, disaffettivizzando entrambi, ed al contempo creando un campo di scontro tra erotismo e potere, avviluppato nel gioco delle resistenze e dislocato nelle interpretazioni.
Ciò che può consentire al terapeuta di affrontare il lavoro analitico è il sentimento del tempo, e la sua corretta percezione. Questa consente l’idea che ‘udire’ possa diventare ‘sentire’, ‘guardare’ ‘vedere’, anche al di là di ciò che si ode o si guarda.
Anche al di là del silenzio, che non è solo sempre ed esclusivamente vuoto.
Il parlare -in questo senso- è un tramite attraverso cui fluiscono gli affetti. Il silenzio vuoto viene incrinato dalle parole cosicché gli affetti vengono impercettibilmente trasmessi attraverso le percezioni.
Dopo, le parole lasciano di nuovo spazio al silenzio. Il silenzio è, dunque, l’‘attrattore strano’ del linguaggio: nel silenzio, alla fine della verbalizzazione, si realizza la vera storia della comunicazione, il disegnarsi del suo senso.


Come posso dire se la tua voce è bella, so soltanto che mi penetra
e mi fa tremare come una foglia
e mi lacera e mi dirompe...
K. Boye



SEDUZIONI


“Così, per ogni atto, il discorso è uguale: un atto in sé e per sé non è né bello né brutto... Così è per l’eros: non tutto è bello sempre, e meritevole di lode”
Platone
Simposio


La condizione di ‘amore’ è difficilmente esprimibile: solo l’immediatezza del linguaggio poetico consente, talora, di coglierne l’essenza.
La psicologia ha cercato di distinguere le diverse componenti dell’amore; ci parla, così, dell’‘agape’, che è l’amore disinteressato, altruistico, comprensivo dell’altro e del suo mistero d’esistere. Dell’‘affetto’, come espressione di vicinanza e familiarità. Della ‘philia’ come affinità ed amicizia. Infine, dell’‘eros’ come passione, attrazione, desiderio.
Tuttavia la catalogazione, la classificazione può stonare: pur riconoscendo la particolarità delle emozioni e dei moti d’animo che ciascuno può esperire l’amore contiene in sé, contemporaneamente, ciascuna di queste componenti.
La fenomenologia descrive l’amore come originaria apertura dell’esser-ci; l’essere dell’amore non è ‘io’ ma ‘noi’: lo spazio ed il tempo dell’amore sono l’abolizione di ogni luogo possibile, l’istante eterno che oltrepassa presente, passato e futuro.
L’amore, dice Binswanger, non ha ragione: “...L’immotivazione dell’amore, che alla ragione appare come irragionevolezza, è proprio il suo fondo, la sua ‘ragione’ e la sua giustificazione” (Binswanger, 1942).
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Secondo il nostro modo di vedere, esistono più similitudini tra un rapporto di terapia ed uno d’amore di quante non siano le diversità.
Se è vero che l’esperienza d’analisi è un processo trasformativo troviamo subito un’analogia: anche l’amore detiene una ‘vis’ trasformativa.
In analisi, come in amore, si esperisce una dislocazione rispetto ai propri abituali parametri: nell’esperienza analitica, che pur si snoda lungo fasi alterne, si acquista una nuova visione del mondo e questo sentimento è comunemente avvertito da chi è innamorato.
Vedere il mondo in maniera nuova e diversa comporta una ristrutturazione dell’assetto psichico ed una sua apertura sul mondo e siamo ad una terza analogia: è il ‘nuovo ciclo’ instaurato dall’analisi nell’essere che, in precedenza, poteva amare solo strutturando rigide difese contro l’angoscia. Nel nuovo ciclo si esperisce il sentimento di espansione e di pienezza di vivere e amare più liberamente.
La seduzione è il nesso che, più di ogni altro, lega la psicoterapia all’amore. In amore è l’elemento centrale e primario dell’incontro e della conoscenza, anche se appare, al tempo stesso, rischioso e temibile. In analisi assume aspetti complessi ma, contemporaneamente, essenziali.
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Il termine ‘seduzione’ copre un’area semantica assai vasta: parlando di seduzione ci si può riferire sia ad una modalità relazionale ‘narcisistica’ sia ad una relazione che, basandosi sull’eros, tende alla realizzazione ‘empatica’ di un rapporto interpersonale.
‘Sedurre’ non significa semplicemente, come potrebbe apparire, ‘condurre a sé’: significa invece ‘sviare, distogliere, condurre in disparte’. L’etimologia del termine riporta anche al significato di ‘sedizione’ che -com’è noto- vuol dire ‘sovvertimento dell’ordine costituito’. È forse anche per questo che, sovente, si coglie nella seduzione un ché di inquietante.
In una accezione ampia, a proposito della seduzione in terapia, si potrebbe forse dire che nell’attività stessa dell’analista è implicita la seduzione: si cerca di attirare l’amore dell’altro, si tenta addirittura di ‘costringerlo’ all’amore. È difficile non riconoscere il tentativo di reciproca seduzione della coppia analitica.
La seduzione aleggia dunque -talora irrompendovi- in tutta la situazione analitica; si potrebbe dire di più: l’analista che ascolta, si interessa, si prende cura dell’altro e la situazione analitica, permeata per definizione di intimità e segretezza, rappresentano le immagini stesse della seduzione.
Carotenuto (1987) parla della seduzione in termini di apparenza ed illusione: in realtà, il significato della seduzione non ha -almeno non necessariamente- a che fare con l’illusione.
È da dire piuttosto che può esistere una seduzione vera ed una falsa[i] : in quest’ultima, all’apparenza della forma non corrisponde contenuto.
A ben vedere, le storie di Anna O., quella di Dora, persino quella di Sabina Spielrein hanno un comune denominatore: che non è tanto nella seduzione, quanto piuttosto nell’abbandono.
Breuer che fugge di fronte ad Anna, Freud che rifiuta Dora, Jung che nega il proprio amore per Sabina: in ciascuna di queste vicende vi è una promessa non mantenuta, un proporre -più o meno consapevolmente- il proprio amore per poi ritrarsi, spaventati, di fronte all’amore ed al tentativo di seduzione operato dall’altro.
Ed è anche da notare che, in ciascuna di queste vicende, non è sufficiente considerare il fatto che la seduzione si sia concretamente espressa -sotto forma di relazione sessuale- o meno: nel caso di Breuer ed Anna O. è l’angoscia di sedurre -o essere sedotti- ad essere determinante.
D’altro canto, possiamo sostenere che il concetto stesso di ‘neutralità’ nasce come reazione all’angoscia di seduzione.
Il vero problema ci appare allora relativo al fatto che dalla seduzione si possa passare alla ‘sedizione’, al sovvertimento dell’ordine della ragione (o almeno questa è l’idea, lo spettro che si aggira attorno all’amore); e ciò accade quando si giunge alla consapevolezza che, in fondo, anche in analisi, si può vivere assieme non solo per il dolore, per l’angoscia e la mancanza, ma -anche- per il piacere, la fantasia, la poesia.
Da cosa dunque deve essere distolto, sviato, il paziente? (da cosa deve essere sed-dotto?). È evidente che distogliere l’altro dai sintomi, dal ritiro narcisistico, distoglierlo dall’alienazione e dall’isolamento per condurlo alla relazione, è lo scopo stesso della terapia.
Diverso è il discorso se si considera invece la possibilità che la seduzione operata dal trattamento analitico distolga il paziente dalla vita: dal luogo cioé ove l’essere realizza i propri desideri e trova le proprie gratificazioni, ponendosi in tal modo il luogo dell’analisi come sostituto del luogo dell’esistenza. In queste circostanze il terapeuta può colludere con le richieste del paziente e cadere nel vissuto sessuale.
NOTE
[i] Come afferma Saraval (1989), la seduzione ‘alienante’ è cosa ben diversa rispetto alla seduzione ‘empatica’ nella quale il seduttore riesce a stimolare nell’altro desideri che sono complementari ai propri, riuscendo altresì a soddisfarli, soddisfacendosi a sua volta. Nel caso della ‘seduzione alienante’ si tratta invece di una seduzione ‘apparente’, narcisistica per colui che seduce, alienante per colui che è sedotto. È comunque quanto mai arduo riuscire a distinguere tra seduzione empatica ed alienante, tra ‘amore’ e ‘identificazione proiettiva’ (Vedi anche nota successiva).


L’AMORE ALIENATO


Sono state scritte molte cose sui possibili danni apportati al paziente in tali circostanze e nella rottura dell'alleanza terapeutica provocata dall'agito sessuale.
Ma perché questo può accadere? Quale impulso o quale profonda dinamica può rendere esplicito questo comportamento?
Se, da una parte, qualunque analista può essersi trovato -più o meno sgomento- ad avvertire sentimenti di innamoramento e desiderio nei confronti di propri pazienti, dall’altra la pressoché totale assenza di letteratura in merito, la scarsità delle comunicazioni tra analisti sull’argomento, non può che aver accentuato i sentimenti di solitudine ed angoscia. A ciò si aggiunge il fatto che, se l’unica ‘norma’ prescritta è quella della ‘neutralità’, se il controtransfert continua ad essere un tabù, allora è chiaro che l’eventuale sentimento d’amore -potente ed immediato- non può che condurre, di per sé, ad agire: l’idea della ‘neutralità’ è, in questo senso, l’altra faccia della medaglia dell’agito sessuale.
D’altra parte, l’insufficiente elaborazione del concetto stesso di controtransfert può far sì che molti analisti considerino il proprio innamoramento come un qualcosa che esula totalmente dall’area transferale-controtransferale.
Il termine ‘agito’ comprende in realtà un continuum, che va dalla esplicita relazione sessuale sino a gratificazioni -verbali e no- che rimangono all’interno del setting. Quando parliamo di ‘amore alienato’ intendiamo evidentemente riferirci alla relazione sessuale tra analista e paziente.
Il significato stesso del termine ‘agito’ comprende accezioni diverse; si è concordi nel ritenerlo un comportamento promosso da entrambi i membri della coppia analitica: tuttavia riteniamo più utile, in questo contesto, utilizzare il termine in sesnso maggiormente ‘controtransferale’, giacché l’aspetto transferale è stato già anche troppo enfatizzato.
Dunque va ribadita la profonda ed indissolubile connessione esistente tra transfert e controtransfert, tra amore di transfert e di controtransfert: tale connessione si rende particolarmente evidente quando si giunge appunto ad ‘agire’ l’amore nell’ambito della terapia. Diviene così chiaro che il ‘desiderio’ dell’analista è da concepirsi come costitutivo del ‘desiderio’ del paziente.
Cremerius (cit.) sostiene che il vissuto sessuale, in analisi, può essere legato al fatto che le problematiche edipiche vengono ‘agite’ anziché elaborate, che cioé sia proprio laddove le fantasie padre-figlia e madre-figlio non vengano risolte che può nascere un clima in cui è relativamente facile scivolare in un vero e proprio ‘incesto analitico’. L’incesto analitico è, in questo caso, legato alla ‘confusione di linguaggio tra adulto e bambino’ (Ferenczi, 1932): l’analista (l’adulto, il padre) introduce nel rapporto con il paziente (il bambino, il figlio) l’elemento passionale -che è proprio delle relazioni adulte- al posto dell’elemento legato alla tenerezza.
Si sostiene anche che l’amore agìto, in terapia, non possa che essere un ‘surrogato’ d’amore, un truffaldino malinteso il cui unico risultato è quello di saturare -ed estinguere- quelle spinte interiori che sono alla base del lavoro analitico e del cambiamento. Nonostante l’apparenza, non sarebbe ‘eros’ ma ‘thanatos’ a promuovere la diade ‘amore di transfert-controtransfert’: si tratterebbe solo di un apparente movimento che, in realtà, si sostituisce al cambiamento ed alla guarigione.
Molti ritengono -ancora- che in questi analisti il vissuto sessuale sia un aspetto di parti ancora scisse e poco consapevoli che agiscono sotto forma di nuclei oscuri: con tali nuclei non sarebbe stata attivata una dinamizzazione e questi stessi sarebbero rimasti scissi e abitualmente repressi. Il vissuto sessuale potrebbe rappresentare, in questi casi, un tentativo di integrare nella coscienza tali nuclei, nei quali la componente sessuale è carica di affetti angosciosi e frustranti.
Può anche essere che l’agito sessuale rappresenti il tentativo di circoscrivere qualcosa di indefinibile e inafferrabile, la letteralizzazione di un procedimento simbolico. L’ipotesi, in questi casi, è quella di un deterioramento, nell’analista, della funzione di ‘fantasmatizzazione’: il deficit della funzione fantasmatica permetterebbe solo fantasie limitate e stereotipe, rendendo inclini all’azione anziché alla riflessione.
Laddove infine le esigenze fusionali siano massicce e la relazione sia dominata da fortissime componenti di identificazione proiettiva[i] potrebbe costituirsi una sorta di ermafrodito ibridizzato di parti del sé dell’analista e parti del sé del paziente. Nell’identificazione proiettiva si può infatti vivere sia un transfert ‘negativo’ che un’illusione d’amore. In queste circostanze anche l’analista può vivere una situazione nella quale non è più possibile distinguere se ciò che accade è al servizio del soddisfacimento del paziente o dell’analista stesso.
Kernberg (1994, cit. in Gabbard, 1994) ha sostenuto la possibilità che possano risvegliarsi nell’analista sentimenti e fantasie di ‘salvataggio’ amoroso come reazione al desiderio di essere l’unico oggetto d’amore del paziente: sarebbe, questo, il ‘contrappasso controtransferale’ di ciò che Balint (1935) definì ‘amore primario’.


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Tutto ciò comporterebbe un pericolo fusionale e l’instaurarsi di una ‘follia condivisa’ tra analista e paziente che renderebbe irriducibile ed inanalizzabile la situazione.
Tuttavia “...soltanto procedendo in punta di piedi sull’orlo dell’abisso possiamo pienamente apprezzare il mondo interno del paziente e il suo impatto su di noi” (Gabbard, cit.); lo sforzo deve essere -dunque- quello di concepire la possibilità di raggiungere una ‘coniunctio’, una ‘parentela’, una comunità affettiva che connoti il profondo contatto inconscio fra due persone che cooperano in una esperienza immaginale; e possiamo evocare il paragone di congiunzione fra anime come inconscia e fortissima esigenza di una relazione umana che possa nutrire e appagare: la domanda d’amore contiene sempre la speranza di un legame che nutra e dilati.
NOTE
[i]L’identificazione proiettiva è un meccanismo che si traduce in fantasie in cui il soggetto introduce parti scisse di sé all’interno dell’altro. L’uso dell’espressione ‘identificazione proiettiva’ è solitamente conforme al senso che la psicoanalisi riserva al termine ‘proiezione’: ovvero rigetto, all’esterno, di ciò che il soggetto rifiuta in sé, proiezione di quella che viene avvertita inconsapevolmente come la parte ‘cattiva’ di sé. Tuttavia nell’identificazione proiettiva si possono anche proiettare -e quindi potenzialmente perdere- parti ‘buone’ del sé: il rischio, in questo caso, è che l’io possa risultare impoverito, indebolito.

L’AMORE COME TRASFORMAZIONE DEL BISOGNO


“Padre e madre di Eros, chi sono? Il giorno in cui nacque Afrodite c’era una gran tavolata di dei. C’erano tutti e, tra loro, anche Poros. Alla fine del pranzo arrivò Penia, che aveva in mente, come rimedio alla sua miseria, d’avere un figlio da Poros: gli si sdraiò così accanto, rimanendo incinta di Eros. Eros s’è dunque trovato conformato nel seguente modo. Intanto povero sempre, non è affatto bello come per lo più lo si crede; ispido e scalzo, senza tetto; giace per terra sempre e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l’aperto cielo nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiara la natura di sua madre, Penia, dimorando insieme sempre con povertà.” (Platone, cit.)
Preliminare all’amore è la condizione di bisogno.
Tuttavia, il bisogno necessita di essere trasformato in qualcosa d’altro e di diverso, per poter essere compiutamente definito amore: giacché condizioni di bisogno e capacità d’amare appaiono istanze inconciliabili. Il bisogno è infatti espressione di una pulsione che tende alla soddisfazione immediata e la cui matrice è rintracciabile, nell'ambito del rapporto interumano, in una condizione di perversione: “...solo gli oggetti di un bisogno che si può differire possono diventare oggetti del desiderio” (Galimberti, cit.).
Dal bisogno deve cioé svilupparsi il desiderio, inteso come necessità di un rapporto oggettuale evoluto, integrato e globale; la condizione ‘desiderante’ dell’uomo è ciò che sta a significare la possibilità di poter vivere non solo ciò che è, ma anche ciò che può essere.
Ed è quindi dal desiderio che può svilupparsi l’esigenza: la realizzazione di un investimento di interesse verso la realtà globale dell'altro realizza infatti una ‘tendenza verso’ l’altro in grado di configurarsi come esigenza dell’altro.


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L’amore nasce dunque da una preliminare condizione di mancanza, di carenza, il desiderio ponendosi come modalità attraverso cui si riempie lo spazio che ci divide dall’altro. La necessità di riempire questo spazio è presupposto imprescindibile sia di un rapporto di terapia che di un rapporto d’amore.
Ed è solo rifiutando di soddisfare i ‘bisogni’ del proprio paziente che l’analista favorisce -contemporaneamente- la realizzazione di una dinamica trasformativa e la costruzione di una possibilità d’amore.
Ciò che principalmente conduce ad incontrare l’altro -indipendentemente dal fatto che ciò avvenga nell’ambito di una esperienza di analisi o meno- è dunque una sorta di indefinibile ma consapevole mancanza, una sorta di necessità che spinge misteriosamente ed ineluttabilmente verso la ricerca della disponibilità ad amare, del saper amare: è questo uno spazio ‘sacro’ che si percorre in una comunanza che tende a superare i convenzionalismi, le forme, e che talora può trascendere le regole. È questo uno spazio che tocca il mistero stesso dell’esistenza, dell’essere, ed inerisce a quella intraducibile sensazione di solitudine dell’esistenza che solo l’incontro con l’altro appare in grado di attenuare. Come se l’altro fosse in grado di annullare quello spazio desertico che ci invade nel prendere atto della nascita e della morte.
“ Tanto tempo fa la nostra forma non era come adesso, ma diversa. Per cominciare, i generi umani erano tre, ed anche i sessi erano tre... Erano mostri d’aggressività, e pieni d’orgoglio assalivano gli dei. Zeus e i suoi compagni discutevano su quale trattamento riservare loro... Zeus disse: conosco la maniera per far restare in vita l’uomo, ma per indebolirlo al punto tale che debba smetterla con la sua superbia... Ciò detto, tagliava gli uomini in due... Ora, dopo il dimezzamento della figura umana, ogni parte rimpiangeva quel suo doppio e vi aderiva: era tutto un intrecciarsi con le braccia, un vivo nodo, come una febbre di fondersi ancora... Da quanto tempo, vedi, è radicato l’eros, la reciproca attrazione nei viventi: eros, riunificatore dell’originaria forma, tutto impegnato a creare dalla coppia l'unità, a medicare questa nostra tempra umana.” (Platone, cit.).
Ancora nel Simposio Socrate, che proclama la sua ignoranza, si dice esperto solo nella scienza d’amore. È propenso a credere che nell’amore si abbia un fenomeno di possessione divina, come se si fosse dominati da una strana pazzia. L’amore sarebbe il demone che permette l’incontro tra l’umano ed il divino. Socrate intende, evidentemente, il potere di espulsione della finitezza e della morte che possiede l’amore, che rende eterno l’attimo e dilata l’esserci oltre misura. L’amore ci accosta dunque al sentimento di eternità: il demone -come tramite dell’unione tra umano e divino- connette ed unisce, tiene insieme; il simbolo è la modalità attraverso cui si riconosce l’oggetto reale, e ci si ricongiunge ad esso: per questo il ‘demone’ dell’amore è simbolo (Galimberti, 1984).
Nel Simposio Socrate sin dai primi momenti dice: “Amore è amore di qualcosa, ed ha brama di procreare nella bellezza”. Quindi è ciò che collega, ma anche ciò che genera e trasforma. Visto come processo interiore amore potrebbe essere il sentimento di insufficienza del nostro io, la nostra ‘mancanza’, che cerca l’altra metà. La congiunzione delle due metà è l’uomo intero, proprio come gli amanti colmano il vuoto della propria metà formando un tutt’uno. “Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliano l’un dall’altro. Non si può credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provino una passione così ardente ad essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno cerca altra cosa, che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando per oracoli ed enigmi”. (Platone, cit.).


AMORE, MORTE E TRASFORMAZIONE


Parlando di Socrate, abbiamo accennato al rapporto tra amore e morte, tra finitezza ed eternità: il discorso deve essere, seppur brevemente, ampliato.
L’intera tradizione psicoanalitica è permeata dal binomio, e dall’antinomia, tra amore e morte; com’è noto, lo stesso Freud costruì attorno alla dualità pulsionale ‘eros-thanatos’ l’intera sua metapsicologia. Freud andava infatti scoprendo, al di là del principio di piacere, l’istinto di morte, e scriveva: “La meta di tutto ciò che è vivo è la morte... In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota... La tensione che sorse allora ... fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato... Sembra addirittura che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte.” (Freud, 1920).
La pulsione di morte, così come concepita da Freud, rappresenta “il luogo della più grande resistenza alla psicoanalisi” (Derrida, 1992).
Per Freud gli istinti di vita e di morte sono dunque collocati in una reciproca prospettiva che ne contempla la contrapposizione e non la dialettica: nella sua concezione al ‘narcisismo’ (inteso come condizione naturale dell’essere umano) si contrappone lo stimolo inteso come ‘dolore’: ed è da questo che si origina il tentativo di ridurre la tensione fondamentale dell’essere biologico, relativa al suo stesso vivere. L’istinto di morte, in questo senso, assume il valore terrifico di simbolo universale della condizione umana.
Per Freud, in altre parole, la vita biologica si struttura su di uno sfondo di morte (il nulla, l’inorganico, il caos primordiale); la vita psichica è incentrata sull’istinto di morte; l’intera vita sociale e la civiltà si edificano attorno all’assassinio del padre ed al pasto totemico. (Meo, 1989). La malattia dell’uomo è dunque nell'istinto di morte, principio intrinseco dell’accadere umano: in Freud l’istinto di morte, così configurato, è ineludibile e responsabile dell’impossibilità anche solo a concepire l’idea della speranza. La vita stessa, infatti, porta inscritta in sé la distruzione e ad essa conduce. Ciò che appare ‘perturbante’, in siffatta visione, non è tanto thanatos, quanto lo stesso eros: poiché è proprio l'apparire della vita ciò che turba l’equilibrio dell’inanimato, il ‘nirvana’. È l’esistenza stessa ad apparire problema irrisolvibile: Freud sembra suggerire: è davvero un male la morte? Perché resistere alle pulsioni di morte ed all’abbraccio del nulla? Come Leibniz: “perché l’essere, piuttosto che il niente?”.
A questa infelice filosofia dell’uomo vorremmo tuttavia contrapporre una diversa ottica e, per farlo, dobbiamo per un attimo tornare a parlare di Sabina Spielrein: questa, dopo la tempestosa relazione con Jung (sulla quale dovremo ancora ritornare), era divenuta membro della Società Psicoanalitica di Vienna, nel 1911; quello stesso anno, il 25 novembre, era stata autrice di una relazione che suscitò grande interesse, e che aveva per titolo: “La distruzione come causa della nascita”.
Il fatto che Sabina fosse giunta a teorizzare la distruzione rende conto del travaglio della sua esistenza, e di quello della sua analisi; la Spielrein proponeva che nessuna trasformazione fosse possibile senza un annientamento dello stato precedente e che tale annientamento, operato dall’istinto di morte, qualora fosse unito ad una dimensione di vitalità, potesse configurarsi come possibilità evolutiva dell'uomo. “... Nell’amore la dissoluzione dell’io nell'amato è contemporaneamente la più forte affermazione di sé, è una nuova vita dell’io nella persona dell’amato. Se l’amore non c’è la rappresentazione di una trasformazione dell’individuo sotto l’influsso di un potere estraneo, come nell’atto sessuale, è allora una rappresentazione di annientamento o di morte” (Spielrein, cit.).
Come dire che l’istinto di vita (l’eros) si completa con l'istinto di morte (thanatos), e che solo la fusione e la dialettica di tali istanze pulsionali rende possibile l'affermazione più vera dell’io di ciascuno di noi.
La Spielrein riteneva dunque l’istinto di morte dimensione potenzialmente evolutiva dell’essere umano.
Nella teoria di Sabina Spielrein si possono cogliere delle eco platoniche:
“La fibra che ha in se la morte cerca con tutte le sue forze d’esistere per sempre, rinnegando la morte. Può farlo per una strada sola: dare vita. In questo modo, di volta in volta si lascia alle spalle una nuova creatura invece della vecchia, giacché nell’arco della vita in cui si dice che ciascun vivente vive, conservando la propria identità (un uomo ad esempio, da neonato a vecchio, si pensa che sia lui, sempre lo stesso uomo) quest’essere vivente, in realtà, non conserva mai in sé identiche, le sue caratteristiche, eppure noi diciamo ‘è lui, sempre lui’. No, invece: si rinnova, di ora in ora... E non è fatto solo fisico: anche nell’anima gli orientamenti, abitudini, immagini, ardori, delizie e tormenti, ansie, ogni aspetto insomma non resistono identici nella persona, ma mentre sorge uno l’altro muore... Con questo espediente tutto ciò che ha in sé la morte sopravvive, non più confermandosi identico.” (Platone, cit.)


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Ma l’affettività -la sessualità in particolare- è anche il rischio nell’ambito del quale ciascuno di noi mette in gioco la propria identità. La seduzione è l’arma attraverso cui il desiderio agisce l’avvicinamento all’altro: avvicinarsi può far paura, poiché l’identità è messa a repentaglio. La costruzione del sé, lungo e laborioso sforzo quotidiano che si esprime -necessariamente- in qualsivoglia attività, viene rimessa totalmente in discussione. E in pericolo. Si sperimenta infatti la momentanea dissoluzione del sé ed il passaggio attraverso la morte, nel corso della propria vita, nel fuggevole attimo dell’orgasmo, esperienza di dissoluzione dell’individualità, rinuncia al proprio io.
“ E sentì, all'improvviso, che non è l’uomo a penetrar la donna, ma che, nell’amore, ci si compenetra a vicenda. E sentì, all’improvviso, distintamente come mai prima d’allora, che -nell'orgasmo- si era perduto, senza più coscienza, senza più ragione. Lui era lei, senza più alcun limite.”


IL DOLORE, OCCASIONE E LIMITE DELL’INCONTRO


Ciò che l’analista recepisce come ‘vuoto’ -in quella fase iniziale della terapia di cui già parlavamo- viene avvertito dal paziente, spesso, come pervasiva sensazione di dolore mentale.
“ Perché devo soffrire così ad ogni respiro, ad ogni passo, ogni minuto che vivo? Chi me lo leva questo dolore? Chi mi leva la bestia dal cuore? È nata con me, e non se ne andrà mai, io lo so, mai. Non me lo potrà mai levare nessuno questo nido di serpenti che mi soffoca da sempre. Questo dolore, che mi avviluppa come un sudario, ed io che non riesco più a respirare, e non mi sento più il cuore”.
Possiamo considerare il dolore come ‘rottura’ della coincidenza tra corpo ed esistenza; in particolare, nel ‘dolore mentale’ non è un organo a soffrire, ma il sentimento del tempo della propria esistenza a contrarsi: il rapporto con il mondo viene così ad essere cadenzato dal ritmo del dolore e non più dall’intenzionalità della vita.
Di conseguenza, spesso lo spazio analitico nasce come orizzonte prevalente del dolore come specifico moto d’anima. L’analisi viene così a rappresentare lo spazio comunicativo che l’uomo si dà per esprimere il dolore: è per il dolore e nel dolore che si crea, inizialmente, il rapporto tra paziente ed analista; ed è proprio attraverso il linguaggio che l’uomo riesce a contenere e confinare il dolore: l’espressione verbale consente che la pervasiva sensazione sorda e muta trovi un luogo ed un significato.
Freud sosteneva che il dolore psichico è fondamentale per la costituzione dell’io; sarebbe il dolore a consentire il passaggio dall’onnipotenza alla realtà. Nella sua concezione il dolore consentirebbe il passaggio dal narcisismo alla relazione oggettuale.
Generazioni intere di psicoanalisti hanno tentato di insegnarci che l’uomo è tale in quanto soffre: da Freud, che affermava la necessità del dolore come antidoto alla fusione narcisistica; a Rank, che fondava l’essenza dell’uomo nell’angoscia e nel dolore del trauma della nascita; alla Klein, che poneva la sofferenza della depressione come unica, possibile cura. Ciò che vi è di ‘scandaloso’ in tali proposizioni non è tanto l’affermazione del dolore quanto, piuttosto, l’idea che non vi sia altra possibilità per l’uomo. Il dolore e la sofferenza vengono cioé proposti come unica prospettiva umana: l’uomo è poiché soffre, e l’unica modalità attraverso cui è possibile eliminare il dolore è quella di eliminare ‘il sentire’.
Nessuno -quasi nessuno- ci ha mai parlato di una felicità ‘possibile’.
Ciò che riteniamo giustificato dire in proposito è solo ed esclusivamente ciò che già tutti sanno, ovvero che la scelta dell’analista nei riguardi della propria professione nasce sul dolore e per il dolore, anche se poi, da questo, inevitabilmente deve differenziarsi: è questa antica ferita che ci rende disponibili ad accogliere la sofferenza dell’altro. Tuttavia, seppure il dolore possa essere considerato occasione dell’incontro analitico, ne è anche, contemporaneamente, uno dei maggiori ostacoli e limiti.
Il contenimento del dolore, il suo accoglimento e la sua elaborazione come possibilità trasformative sono dunque dei compiti precisi nei quali transfert e controtransfert trovano una collocazione importante. In questo senso possiamo dire che il luogo e il tempo della terapia permettono l’attivazione, il riconoscimento ed il superamento del dolore, consentendo di trovare analogie tra sentimenti di perdita del sé e dolore mentale, quindi tra dolore mentale e passione. Si tratta dunque di un confronto tra felicità possibile e dolore, tra amore e morte: l’analista ed il suo paziente sono accomunati da una sorta di difficile appercezione della dimensione amorosa, chi per un verso chi per un altro, come se per approdare all’amore entrambi dovessero per forza aver attraversato l’esperienza del dolore.
Ed è qui che ritroviamo il discorso sull’amore e sulle emozioni che legano reciprocamente paziente e terapeuta. Noi crediamo che l’atteggiamento dell’analista debba svolgersi comunque su due determinanti: l’agape comprensiva del dolore e l’agape comprensiva dell’amore.
Il primo atteggiamento è astinente non tanto perchè esclude l’eros dalla relazione quanto perchè esclude il domani del dolore, il quale -riducendo l’antica felicità perduta a un desiderio regressivo- impone la tirannia dell’unica liceità: la rassegnazione al dolore.
L’agape comprensiva dell’amore risponde invece alla domanda del dolore non per negarlo, nemmeno per superarlo e accettarlo. Risponde con un ‘oltre’ che ha a che fare con una totalità che supera il sentimento troppo inflazionato della realtà.
Nel luogo analitico gli oggetti si significano in modo particolare, il tempo si sospende e diventa storia lecita; Hillman (1984) ha parlato di storie che curano: che cosa viene ricomposto in quello spazio e in quelle storie? Oggetti che prima apparivano vuoti e frammentati, o il rapporto con quegli oggetti, ricostituito nell’accettazione della propria individualità; o che altro ancora? Quale esito produce la ricostruzione? Noi crediamo una sensazione di pienezza, di fiducia contro lo smarrimento del non senso di un’esistenza troppo spesso povera di affetti.

IL TEMPO SOSPESO


Se osserviamo la relazione terapeutica lungo un percorso cronologico potremmo individuare delle fasi, che rimangono beninteso abbastanza ipotetiche ed estremamente legate alla specificità del soggetto analizzato e più ancora alla specificità della relazione terapeutica.
In un primo momento prevale nel paziente l’aspettativa ed un sentimento di sospensione connotato dallo sforzo di conoscenza, determinato dalle motivazioni che l’hanno portato in analisi. Successivamente si instaura una fase fusionale nella quale agiscono processi di identificazione e proiezione con movimenti regressivi e idealizzazioni dell’analista. Questo periodo può connotarsi di ambivalenza, prevalendo ora le istanze precedenti ora quest’ultima. Il paziente è sottoposto ad una forte tensione, proiettato verso una situazione più libera ma al contempo impaurito e dubbioso. I dubbi possono riguardare prevalentemente l’analista, le sue capacità, la sua affidabilità. Solo se questa tempesta emotiva viene superata si instaura una maturazione possibile. Il ‘temenos’ analitico rappresenta in quel momento un luogo dove sentirsi protetti ma al contempo spinti a sostenere il peso della frustrazione provocata dalla rinuncia a soddisfacimenti immediati ed il peso di aderire a un sentimento libero da coazioni masochistiche e riduttive ma rassicuranti. In questa fase può svilupparsi un transfert negativo. L’analista è chiamato a intervenire sulle sue risposte emotive e l’area controtransferale diventa preponderante per superare l’ostacolo. Entrambi, analista e paziente, sono sottoposti ad una forte tensione determinata da azioni e controreazioni. Nell’analista tensione fra tendenze empatiche o fusionali e la funzione simbolica interpretativa. Nel paziente tensione fra domanda d’amore e la solitudine del processo trasformativo. L’impasse può essere superata solo attraverso l’elaborazione dei vissuti transferali e controtransferali: è attraverso questi che il paziente può reincontrare l’analista nella sua realtà.


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Ma è la relazione nella sua globalità, in psicoterapia, che sembra inserirsi in una sorta di interruzione del tempo ordinario.
Come se questo fosse sospeso, traslato in una dimensione diversa da quella nella quale siamo abituati a percepirlo: quella condizione iniziale di ‘contrazione’ del tempo diviene la sospensione del tempo ordinario; il ‘temenos’ analitico diventa il luogo ove comunque si sperimenta la trascendenza: nella trasformazione della percezione del tempo può cogliersi la possibilità di passare dall’immanenza del dolore alla trascendenza di una felicità ‘possibile’.
Ma non solo: la psicoterapia, come ogni atto umano che implichi un rapporto fra individui, è comunque un incontro fra esistenze umane, che al di là delle premesse tecniche, si trovano di fronte. Perchè si incontrino e perchè assieme cerchino un ‘oltre’ non ha una risposta precisa nè per quanto attiene alle motivazioni profonde nè per quanto concerne le pressioni del destino. Dobbiamo comunque dedurne che l’incontro si situa e si qualifica nei significati esistenziali di entrambi i membri della relazione solo in rapporto al valore soggettivo di ognuno ed alla particolare affinità interindividuale.
Ma l’attimo dilatato dell’esserci è come un oblio -come una reverie- una rimozione del lucido, fattuale svolgersi della vita. È in questa specie di distacco, in questa sorta di sospensione rispetto all’inesorabile trascorrere della vita che si situa lo sguardo coraggioso di chi si affida comunque alla vita, dimentico -negli altri e per gli altri- della sua basilare inconsistenza. Come nell’amore. Un tempo lo si sarebbe chiamato lo sguardo coraggioso del poeta e del filosofo. La vita si dilata e diventa una ‘poiesis’ complessa ed avventurosa. Si va in analisi per cercare la felicità perduta, che pure sappiamo originaria poichè l’abbiamo vissuta, almeno in principio, almeno una volta. E non è solo un movimento regressivo o narcisistico, alla ricerca di un ‘eden uterino’. In analisi cerchiamo di risolvere il problema della perdita e della mancanza (della felicità) ed esperiamo la contraddizione che l’anima stessa esprime una necessità, una mancanza. Si vuol risolvere il paradosso ma per non essere vittime del caso (la felicità, appunto come caso) cerchiamo l’abilità e la virtù della felicità.

ABILITÀ E VIRTÙ DELLA FELICITÀ


L’uomo possiede in sé un immemorabile idea della felicità come soddisfazione e godimento, come se questa fosse all’origine come esperienza del bene, indatabile, atemporale. È ovvio che dobbiamo considerare un’esperienza della felicità duratura e non limitata o bruciata dall’attimo, che può anche essere un piacere acmeico ma recherà sempre con sé la perdita o la casualità. La felicità di cui parliamo è quella felicità ‘possibile’, che sola è in grado di rendere tollerabile il dolore. Certamente il dolore è un possibilità della vita e per giunta ineliminabile. Ma la vita è anche l’apertura di ogni possibilità. Quindi il piacere d’esistere può non coincidere con l’istante del piacere, ma deve riguardare la realizzazione dell’intera vita. Non l’attimo ma la qualità permanente, concezione nella quale l’uomo può sviluppare la più alta felicità.
Soffriamo troppo spesso di mete e finalismi continuamente sollecitati dal razionalismo e dalla pressione ordinatrice dei contesti sociali. Eppure la maggior parte delle azioni più appaganti sono espresse senza una finalità precisa, con il solo scopo di manifestarsi.
La danza delle parole non diventa mai informe né casuale o fasulla ma -pertinente sempre- forma fra gli individui un’interazione molto simile a quella che si stabilisce nella danza fra i corpi ed oltre i corpi; gli scopi si trasformano in espressione e crescita e ‘l’avere’ come lettura del rapporto di sé con il mondo lascia il posto all’ ‘essere’ (Fromm, 1976).
Ma cosa significa piu precisamente ‘essere’ con il mondo ed in esso manifestarsi? Non può essere certamente una felicità subitanea e irrimediabilmente e troppo precocemente tramontabile. Noi crediamo sia una globale e duratura espansione dell’individuo che acquisisce, semmai naturalmente non gli sia concessa, l’abilità della felicità.
In questo crediamo di concordare con la definizione di virtù della felicità che il filosofo Salvatori Natoli delinea nel suo saggio sulla felicità, che ci pare correttamente esposta. “...Il piacere della vita risiede nella capacità che si ha di viverla fino in fondo nonostante il dolore e di condurla a termine al meglio secondo le individuali possibilità. L’immediatezza del piacere mal si addice alla complessità della vita, per ben vivere è necessario commisurare le nostre istanze di piacere alla articolazione del reale. Ma nel passaggio dall’io piacere all’io realtà l’uomo si porta al di là del piacere, non tanto perché ad esso rinunci, ma perché attestarsi alla sola pretesa di un piacere incondizionato è cagione di maggiore dolore e l’eccesso preclude la via alla soddisfazione possibile. Si deve tentare di forzare il limite, ma insistere equivarrebbe a perdersi. In qualche modo la felicità è grazia e la si può solo ricevere pur lavorando per essa. La si può cercare, attendere ma non pretendere. Diverrebbe un’ossessione.”
È dunque possibile soltanto ‘disporsi’ ad essere felici, ma la felicità viene raggiunta come una specie di prodotto ‘collaterale’, che può realizzarsi o meno.
Continua Natoli: “Nella rinuncia all’immediatezza del piacere la felicità non naufraga, ma subisce una dislocazione ed una torsione che la spoglia di alcuni tratti di immediatezza per indirizzarla verso una qualità permanente. Considerata sotto questo aspetto e non nell’immanenza del’attimo, essa è qualcosa che si cumula nell’arco di una vita intera.” (Natoli, 1994)[i]
[i]L’idea della felicità che qui intendiamo suggerire -attraverso le parole di Natoli- si distacca sensibilmente da quella proposta dalla tradizione psicoanalitica classica, la quale sembra piuttosto rifarsi all’idea dell’atarassia e dell’imperturbabilità stoica: è la dottrina dell’invulnerabilità e dell’apatia che salvaguardano dalla realtà e dalla possibilità di essere toccati dalla gioia e dal dolore. Per non patire lo strazio della sofferenza sarebbe necessario raggiungere un punto di indifferenza (neutralità) che instauri un luogo che è un ‘altrove’ (l’originaria idea del transfert) rispetto a quel che accade.

3. L’AMORE DI CONTROTRANSFERT


Linguaggio della poesia e linguaggio della terapia
Transfert, controtransfert e amore
La ragione degli affetti
Linguaggio della poesia e linguaggio della terapia


3. L’AMORE DI CONTROTRANSFERT


“ Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario...
Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è,
questa è pur l’unica ragione del loro mestiere.”
Pirandello
I sei personaggi


Caro Dottore
basta distanza
varchiamo La prego
il confine della stanza
V. Lamarque


LINGUAGGIO DELLA POESIA E LINGUAGGIO DELLA TERAPIA


Come sappiamo, la ‘cura con le parole’ di Anna O. condusse al fallimento terapeutico.
Può essere che le parole non fossero quelle ‘giuste’.
Parlare non è il fine, bensì il tramite attraverso cui l’inconscio si esprime: le parole veicolano contenuti affettivi.
Anna credeva di curarsi con le sue stesse parole; invece, era nelle parole di Breuer che ella cercava la guarigione: e negli affetti che, in quelle parole, riusciva ad avvertire.
Ma Breuer fuggì di fronte alla improvvisa consapevolezza di questi stessi affetti; forse, davvero credeva che le sue parole fossero legate solo alla coscienza ed alla ragione.
Quando Breuer tacque, anche Anna ridiventò muta; ed avvertì quell’improvviso, reciproco silenzio, come un’assenza affettiva.
Il suo inconscio non riuscì più a parlare, così, l’unica possibilità rimastale fu quella del sintomo isterico, la gravidanza come ultima -impossibile- seduzione.
*
“Il linguaggio non è uno strumento a disposizione, ma è l’evento che dispone della suprema possibilità dell’essere dell’uomo” (Heidegger, 1963, cit. in Scatena e De Cesari, 1995).
La radice etimologica (poiesis) del termine ‘poesia’ rimanda all’atto stesso della creazione ed una qualche funzione ‘poetica’ dovrebbe essere implicita in ogni forma di linguaggio.
Nella poesia si può cogliere un’essenza simbolica, complessa e polisemica che la permea e la organizza totalmente; inoltre, il messaggio poetico è -per definizione- ambiguo, poiché per definizione devia dalle regole e dalla norma. Questa ambiguità si riflette, in primis, nel fatto che il destinatario del messaggio poetico -più che un semplice ‘consumatore’- è sempre, contemporaneamente, ‘produttore’ del messaggio stesso: “Al destinatario viene richiesta una collaborazione responsabile. Egli deve intervenire a colmare i vuoti semantici, a ridurre la molteplicità dei sensi, a scegliere i propri percorsi di lettura” (Eco, 1979). Il coinvolgimento, in questi termini, del destinatario del messaggio nella costruzione del messaggio stesso è ciò che rende creativa la produzione poetica: questa ‘si fa’ assieme: pur rimanendo ciò che è, cambia continuamente, essendo per definizione aperta e non finita.
La poesia è, per antonomasia, linguaggio d’amore; esiste altresì una relazione tra poesia e psicoanalisi poiché quest’ultima è ricerca di significati che si costruiscono insieme: la psicoanalisi è dunque la vera poesia dell’uomo, poiché è ‘poiesis’ di relazione fondata sul linguaggio.
Inoltre, la psicoanalisi ha da sempre manifestato la pretesa di voler parlare d’amore. Tuttavia, lo psicoanalista che parla d’amore utilizza, il più delle volte, un linguaggio che è in grado di produrre, nel lettore, l’impressione di una incongruità, di una ‘stonatura’. Lo psicoanalista che parla d’amore -tranne rare e fortunate eccezioni- sembra infatti il medico necroscopo che disseziona ‘l’amor cadaverico’ e, ricercando la causa di morte, sembra inconsapevole d’esser lui stesso ad averne provocato il decesso: “ ciò forse è dovuto al desiderio degli psicoanalisti di sentire che stanno parlando di memoria, sogno, fantasia, ad un livello ‘scientifico’; cioé nella falsa sicurezza della scienza in contrapposizione alla poesia” (Rich, 1977). È che la scienza appare in grado di risolvere la schiavitù dell’uomo nei confronti della religione e di un dio, qualunque esso sia; ma è solo la poesia a poter liberare la scienza dell’uomo dalla costrizione impostale dalla ragione astratta e dal riduttivismo biologico.
Resta allora innegabile il fatto che alcune verità e alcune libertà devono far parte della psicoanalisi e dell’amore, almeno finchè riusciranno a mantenere i confini che le separano dai modi con i quali il collettivo abita il mondo. L’amore come stato d’eccezione quindi e non solo come il piacere più intenso, e non solo per la gioia e l’estasi del legame ma come sperimentazione dell’eccezionale. In amore si oltrepassa il limite, ‘si cade’ in amore, superando il limite all’eccesso.
In amore c’è la sospensione del tempo e l’eternità dell’attimo: in quel tocco si avverte il permanere puro e l’attimo che redime il tempo ed espelle da sè la morte, come se in amore (come se in analisi) vi fosse un presagio dell’eterno.


TRANSFERT, CONTROTRANSFERT E AMORE


Se volessimo ripercorrere, sinteticamente, l’evoluzione dei concetti di transfert e controtransfert potremmo forse esprimerci come segue.
Stekel, nel 1912, definiva il transfert un ‘amore apparente’; Freud, al contrario, giungeva a considerarlo come un amore ‘vero’, il quale tuttavia poteva interessare l’analista solo in virtù di un ‘falso nesso’, prodotto dalla situazione analitica. Il discorso veniva tuttavia ulteriormente complicato dall’idea, espressa da molti, secondo cui, in fondo, “...ciascuno di noi ama autenticamente solo una volta, ed ogni amore successivo non è che una ripetizione, un surrogato” (Stekel, 1912, cit. in Krutzenbichler - Essers). In sintonia con questa affermazione anche Balint, nel 1935, riprenderà il concetto di ‘transfert primario’ espresso da Ferenczi nel 1909, teorizzando ‘l’amore primario’, ovvero il desiderio primario del paziente di essere amato incondizionatamente[i]. E non finisce qui: “...la situazione analitica non è una semplice riproduzione della situazione di vita, e men che meno dell’infanzia” (Grunert, 1989, cit. in Krutzenbichler - Essers ). Ovvero: se da una parte, nell’amore di transfert, la paziente ripropone un vissuto regressivo, è pur vero che, d’altra parte, la donna adulta intraprende un serio tentativo di stabilire una relazione affettiva evoluta con il proprio analista, e precisamente con lui.
Considerazioni in qualche modo analoghe potrebbero farsi a proposito del controtransfert: il termine ha conservato, per decenni, connotazioni negative, derivate -evidentemente- dall’originario ‘divieto’ posto da Freud. La stessa Melanie Klein, nel 1950, insisteva ancora che il controtransfert è qualcosa che interferisce con l’analisi, definendolo come una forma di transfert non analizzato dell’analista (quindi, come tale, anch’esso ‘oggetto’ della cura).
Il lavoro presentato nel 1950 da Paula Heimann metteva in risalto, per la prima volta, la svolta verso una concezione ‘totale’ del controtransfert, nel senso del coinvolgimento di tutti i sentimenti dell’analista verso il proprio paziente. “...Non è stato sufficientemente sottolineato che si tratta di una relazione tra due persone. Ciò che distingue questa relazione dalle altre non è la presenza di sentimenti in un partner, il paziente, e l’assenza in un altro, l’analista, ma l’intensità dei sentimenti stessi e l’uso che se ne fa.” (Heimann, cit.). La Heimann accentuava così contemporaneamente, e più di chiunque altro prima di lei, il valore positivo del controtransfert come strumento di conoscenza: era la cenerentola della psicoanalisi, ne divenne la principessa.
Tuttavia, sembra potersi ripresentare un pericolo, ed una mistificazione, nell’affermazione della Heimann che il controtransfert è un prodotto del paziente: si forma nell’analista, ma come creazione del paziente[ii]. In tal modo, i sentimenti di controtransfert vengono spersonalizzati: ancor oggi, del resto, molti analisti sostengono la tesi del controtransfert esclusivamente nei termini di ‘reazione’ al transfert. La principessa non riesce dunque, ancora, a trovare il suo ‘principe’ (l’analista).
Oltre a ciò, i concetti di transfert e controtransfert confluiranno solo molto tardi, nel riconoscimento “che abbiamo a che fare con un sistema di relazioni dove un fattore è funzione dell’altro” (Lock, 1965, cit. in Thomä-Kächele, 1990). Neyraut (cit.) e Kemper (1969, cit. in Thomä-Kächele) giungeranno alle medesime considerazioni.
Allora, vorremmo ribadire l’idea dell’unitarietà del prodotto transfert-controtransfert, e vorremmo definirlo come prodotto del concepimento della relazione analitica.
In sintesi, quindi, dall’indifferenza auspicata da Freud all’idea del controtransfert come potentissimo strumento di conoscenza e trasformazione; dal controtransfert come ‘incidente’ alla indissolubile reciprocità ed unitarietà del prodotto ‘transfert-controtransfert’.


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‘Sentire’ significa esperire affettivamente la propria (e l’altrui) vita interiore, sapendola -contemporaneamente- definire e comunicare.
Ciò che l’analista chiede al proprio paziente è che il suo sentire sia adeguato, ovvero consono alla situazione che in quel momento, in quella relazione e in quel contesto sta vivendo.
Da parte dell’analista vi è propriamente una esigenza in tal senso: ‘cura’ l’essere che ha di fronte esigendo la realizzazione, l’espressione di quelle che sono le sue potenzialità.
L’analista deve -evidentemente- aver ben strutturata la rappresentazione di sé, così come, anche, la rappresentazione mentale dell’altro come entità potenzialmente distinta, separata, indipendente: ciò consente che vengano riconosciute e tollerate le identificazioni proiettive e gli investimenti patologici.
Noi riteniamo che le ‘qualità affettive’ degli oggetti siano fondamentali nella strutturazione della personalità umana: e riteniamo il processo terapeutico una ‘ricostruzione’ dell’affettività del paziente, ricostruzione che avviene utilizzando il tramite dell’affettività dell’analista.
È perciò che il controtransfert non è solo strumento di conoscenza, ma anche e soprattutto di trasformazione; ed ogni trasformazione avviene nell’ambito della relazione: la psicologia è sempre una psicologia a due menti, e l’esperienza affettiva dell’analisi riesce ad essere tanto più ‘correttiva’ dell’affettività del paziente quanto più si riesce ad essere, nella relazione, persone reali e non fantasmi: ed a consentire all’altro di esperirci come tali: “...il nostro essere si conferma e si incontra nello sguardo, nel dialogo e nel riconoscimento del prossimo.” (Savater, 1996).
Infine, il paziente deve sentirsi compreso ed amato: perché ciò possa accadere, bisogna essere in grado di comprendere ed amare: questo può non essere sufficiente, ma è -quanto meno- necessario affinché il paziente possa guarire.
Tutto ciò è l’amore di controtransfert.


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Dunque transfert, controtransfert, amore; non vorremmo, anche noi, riproporre il pericolo di una incongruità di linguaggio, questa volta nel senso di una qual confusione tra i termini: talora si parla di transfert o controtransfert, talora invece di amore.
Allora: togliamo ogni residua ambiguità ai termini ‘transfert’ e ‘controtransfert’ e sosteniamo che questi medesimi possono essere ‘amore’: può cioé non esservi differenza di principio tra i concetti di transfert-controtransfert ed amore.
Lo si chiama transfert, ma è (può essere) amore; lo si chiama controtransfert, ma è (può essere) amore.
NOTE
[i] Le considerazioni espresse da Balint possono essere riassunte nei seguenti punti: esiste una fase estremamente precoce della vita di relazione oggettuale che viene definita ‘amore oggettuale primario’ o ‘amore primario’; questa fase rappresenta uno stadio necessario allo sviluppo psichico; tutte le successive relazioni oggettuali possono essere ricondotte a questa; il fondamento biologico di questa forma di amore è la interdipendenza pulsionale tra madre e figlio .
[ii]Per la verità la stessa Heimann, successivamente, prese una tale distanza da questa tesi da stupirsi di aver mai fatto tale affermazione. (cfr. ‘Controtransfert’, in ‘Trattato di terapia psicoanalitica’ di Thomä e Kächele).


LA RAGIONE DEGLI AFFETTI


Quest’ultima affermazione impone alcune riflessioni.
Sin qui, abbiamo cercato di dire che l’amore è -e dev’essere- una delle principali componenti della terapia; abbiamo affermato la necessità di non ritrarsi di fronte alla possibilità d’amore, anzi di doverla addirittura perseguire; abbiamo in sintesi sostenuto l’impossibilità di prescindere dalla considerazione degli affetti (del paziente e dell’analista) ai fini della cura: gli affetti nei multiformi e variegati aspetti attraverso cui si esprimono.
Ciò che abbiamo voluto sostenere è che non vi è possibilità alcuna di terapia qualora si tenda ad eliminare gli affetti; che tali tentativi sono -comunque- destinati all’insuccesso; infine, che quella ‘terapia’ che riuscisse ad annullare gli affetti condurrebbe non tanto alla guarigione quanto, piuttosto, all’indifferenza -il che è cosa ben diversa.
Abbiamo anche voluto sostenere che vi è, sempre, una ragione negli affetti; e che scopo della terapia è appunto quello di ricercare, e scoprire, tale ragione.
In una accezione diversa, vogliamo anche dire che la terapia deve perseguire la ragione degli affetti.
Oggi, del resto, persino la neurobiologia inizia a sostenere che il sentimento è parte integrante della ragione: che la ragione, in questo senso, non è ‘pura’ e che alcuni aspetti del processo emotivo e del ‘sentire’ sono indispensabili per la razionalità. (Damasio, 1994).
La psicoanalisi, d’altra parte, nell’accostarsi allo sviluppo umano ed alla sua organizzazione, inizia anch’essa a sostenere la necessità di una concettualizzazione integrata dei processi cognitivi ed affettivi ai fini della comprensione della personalità umana: il ‘sentire’, in questo senso, costituisce “il sistema semantico e motivazionale cui i fattori cognitivi fanno da supporto” (Attili, 1990).
Infine, anche la filosofia afferma l’esistenza di una ‘ragione appassionata’, una ragione cioé che debba tener conto del ‘sentire’ per poter essere, veramente, razionale. (Savater, cit.).


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Può essere tuttavia che, parlando d’amore e seduzione, anche l’analista, il quale ha -di solito- risposte da dare (sebbene nessun analista possa avere, sempre, tutte le risposte) giunga a doversi interrogare -egli stesso- sull’amore.
Allora, può darsi un’incertezza e -quindi- una domanda: l’amore, così come comunemente lo si intende, in cosa differisce dalla ‘cura’?
Riteniamo che la diversità fondamentale sia la seguente: seppure si possa -almeno idealmente- definire un rapporto d’amore come un qualcosa che permea l’intera esistenza dell’individuo, e che quindi dura per tutta la vita, lo stesso non è possibile dire per un rapporto di terapia. Il quale, per poter essere tale, necessita di avere un inizio, una durata, ed anche una fine. Il luogo ed il tempo della terapia sono limitati. Nella stessa definizione di ‘cura’ in altre parole, è implicito il termine, la terminabilità: quando l’analisi è ‘interminabile’ ciò è perché, al di là della consapevolezza di ognuno, si è instaurata una collusione seduttiva ‘alienante’ la quale comporta “...che non si debba mai arrivare a un dunque, per rimanere sempre in quell’incerto confine tra quasi concluso e irrealizzato, in un continuo pseudo movimento che non separi mai, né mai riunisca.” (Roccato, 1989).
E ciò se è vero che l’amore possa essere tale pur essendo interminabile.
In merito alla domanda di poc’anzi la ‘ragionevole norma’ della psicoanalisi ha molteplici risposte da dare.
La prima è un riferimento al ‘setting’: tale riferimento pre-scrive che il ‘contratto’ della terapia sia verbale, e che tale debba necessariamente rimanere: cosicché il parlare pone un limite all’espressività dell’amare. Il medesimo riferimento al setting può persino concedere che non vi sia più patologia nell’amore di quanta ve ne possa essere nella ragione: ma che l’eventuale patologia sia riconoscibile nel fatto che amore o ragione si esprimano -ed attraverso quali modalità- in un contesto piuttosto che in un altro; il maniera tale che non sia comunque possibile andare ‘oltre’ il setting.
È da notare, tuttavia, che l’idea stessa del ‘setting’ nasce come modalità di neutralizzazione e controllo degli affetti.
La ‘ragionevole norma’ psicoanalitica giunge persino a ritrovare Sabina Spielrein che, in una sua lettera a Freud, scriveva: “... potrò ben trovare qualcuno, nel quale io possa riconoscere una qualche somiglianza con l’amato, e che riuscirò infine ad amare. Il mio unico desiderio è quello di separarmi completamente dal dr. Jung, per poter seguire la mia strada.” (Cfr. Carotenuto, 1980, cit.). Sarebbe, questa, la modalità attraverso cui la psicoanalisi intende possa ‘risolversi’ il transfert: in ciò che viene definito ‘transfert del transfert’ (Cfr. Sechaud, 1995). La medesima richiesta di libertà può leggersi anche nelle parole di Anonima (1990): “...Non avrei mai potuto sopportare una relazione d’amore che mi ponesse in una dipendenza così totale... Per essere felici occorre essere liberi”.
La ‘ragionevole norma’ della psicoanalisi tuttavia apparentemente dimentica che tali richieste nascono -anche- dal tentativo di liberarsi di una prigione che è tale a causa di un’assenza affettiva.
Allora, possiamo solo considerare che è proprio nella mediazione con la ‘norma’ che gli analisti possono smarrire gli affetti; e che è dal recupero dell’affettività implicita nella domanda del paziente che l’analista può riscoprire i modi per criticare -e mettere forse in crisi- quella stessa norma dalla quale -giova ricordarlo- il paziente proviene.
Il fine dell’analisi è quel fine-analisi in cui il paziente (analizzando) torna alla norma proponendo sé stesso come testimone nella memoria, agente nella prassi, una storia di rapporto che la norma non aveva previsto come possibile ; per comprendere questo è la norma a doversi dotare di quegli stessi affetti di cui deve essere dotato l’analista: e ciò per opporsi a quella scissione tra ragione ed affetti che la norma pare proporre come ineludibile.
È nella ‘norma’ dunque che deve potersi ritrovare ciò che in analisi si è trovato.
Forse, allora, si deve distinguere tra domande cui la ragione può accostarsi ed altre che dalla ragione non possono avere risposta. Poiché qualunque risposta possibile rischia, ancora una volta, di produrre una ‘stonatura’: può essere infatti che, in ogni modo, la ragione incrini, interrompa, il fluire degli affetti, contrapponendosi ad essi.
Ma noi sappiamo che -nella realtà, ed anche nella realtà di una cura- accade, talora, proprio il contrario: e cioé che sia l’affetto, -l’amore così come comunemente lo si intende- ad interrompere l’ordine del discorso, incrinando la ragione.
“È che le cose le posso seppellire anche sotto quintali di sabbia, ma il vento pian piano le riscopre. Penso che ci sia un mare in mezzo a noi, che ci divide, ma che ci tocca entrambi e ci mantiene uniti.”
Allora, dobbiamo dire che l’unica risposta possibile è, forse, in quell’attimo di esitazione e di incertezza che ci coglie prima di ogni possibile risposta; in quell’attimo di silenzio nel quale ogni parola pare sviata, smarrita nel labirinto dell’inconscio: è solo in quell’attimo che è possibile capire quale possa essere -come e dove possa ancora ritrovarsi- la ragione degli affetti.
“...Ed è quando l’essenziale del linguaggio si blocca, in quanto è venuto meno, che la parola vera può sorgere.” Scopriamo così che “...il linguaggio è uno schermo. La volontà è una macchia sulla vista. La coscienza è un demone... Tutti servono delitto e morte. La lucidità, la ragione, il linguaggio muoiono incessantemente.” (Quignard, 1995).
È nel silenzio di un vuoto colmato che può forse emergere la risposta più vera, che è tale anche perché inesprimibile.
Cosicché l’inconscio, in quell’attimo, non ha più bisogno di parole.




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